Il Muro dell’apartheid dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia

“Quali conseguenze giuridiche derivano dalla costruzione del muro da parte di Israele, Potenza occupante, nei territori palestinesi occupati, comprese le zone attorno e all’interno di Gerusalemme Est, come descritto nel Rapporto del Segretario generale prendendo in considerazione le regole ed i principi di diritto internazionale, compresa la Quarta Convenzione di Ginevra e le rilevanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale?”

Sono queste le parole che inquietano le Cancellerie e turbano i responsabili della politica israeliana.

Sono le parole che ha pronunziato l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione adottata l’8 dicembre del 2003, con la quale l’Assemblea ha messo in gioco l’ultima risorsa dell’ONU, la più preziosa, la Corte Internazionale di Giustizia.

Il conflitto israeliano Palestinese, com’è noto, è il conflitto internazionale che più profondamente ha intersecato la responsabilità della Comunità internazionale attraverso l’Organizzazione delle Nazioni Unite.

A cominciare dall’ormai lontano 1947, quando l’Assemblea Generale, con la Risoluzione n. 181 del 29 novembre, decretò la divisione della Palestina soggetta al Mandato Britannico in due Stati, prevedendo uno status speciale per la città di Gerusalemme.

Da allora le Nazioni Unite sono intervenute in tutte le maniere possibili per fermare gli eserciti, restaurare i diritti violati, arginare la violenza, dare una prospettiva ai profughi, tracciare un quadro di regole condivise dalla Comunità internazionale e indicare una prospettiva per la costruzione di una soluzione pacifica e definitiva del conflitto, impegnando tutte le loro risorse.

Dopo aver riconosciuto il diritto al ritorno dei profughi del 1948, con la Risoluzione 194, del 11 dicembre 1948, l’Assemblea Generale ha creato, con la Risoluzione n. 302, adottata l’8 dicembre 1948 una apposita Agenzia delle Nazioni Unite con il compito dell’assistenza “provvisoria” ai rifugiati, l’UNRWA. Quindi Sono state inventate, e sperimentate per la prima volta, proprio in Medio Oriente, le operazioni di peacekeeping di forze internazionali dell’ONU.

A partire dalla missione UNEF I (che operò sulla frontiera egiziano-israeliana dal 1956 al 1967 e fu addirittura deliberata dall’Assemblea Generale a causa dell’inerzia del Consiglio di Sicurezza) all’UNEF II, all’UNDOF (Forza di osservazione dislocata nel Golan) all’UNIFIL (Forza cuscinetto fra Israele ed il Libano costituita nel 1978).

L’Assemblea Generale ed il Consiglio di Sicurezza hanno esaminato tutti gli aspetti del conflitto. In particolare quest’ultimo ha pronunziato numerose ed importanti Risoluzioni, come la Risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967 e la Risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973, che ancora oggi costituiscono i capisaldi, la via maestra per ogni possibile percorso di pace.

Non esiste un conflitto, una crisi internazionale che sia stata conosciuta più profondamente dalle istituzioni della Comunità internazionale. E d’altro canto il conflitto israeliano-palestinese è il banco di prova della crisi delle istituzioni internazionali, della loro perdita di autorevolezza e della loro incapacità di attuare o far rispettare le regole ed i principi condivisi dalla Comunità internazionale.

L’ultima risorsa del sistema della Nazioni Unite che non era ancora entrata in gioco è la Corte Internazionale di Giustizia. A questa si è, infine, rivolta l’Assemblea Generale, chiedendo un “parere consultivo”, ai sensi dell’art. 96 della Carta delle Nazioni Unite.

A questo punto dobbiamo riprende in considerazione il quesito per decifrarlo: che cosa significa Territori occupati, qual’è lo Status giuridico dei territori occupati, perché Israele viene definita Potenza occupante, quali sono gli obblighi della Potenza occupante alla luce del Diritto internazionale ed in particolare della IV Convenzione di Ginevra ed ancora dobbiamo chiederci se la IV Convenzione si applica ai Territori palestinesi occupati e quali sono le principali obbligazioni derivanti dalla IV Convenzione.

Soltanto se abbiamo ben chiari questi concetti, allora possiamo comprendere il significato del quesito che l’AG ha posto alla CIG.

Lo Stato di Israele non ha mai dichiarato quali sono i suoi confini. Da un punto di vista di fatto il confine di Israele è rappresentato dalle linea armistiziale del 1949, che viene comunemente denominata “linea verde”. anche se tale linea è stata unilateralmente modificata da Israele con la dichiarazione di annessione di Gerusalemme Est (il 28 giugno 1967) e delle alture del Golan (il 14 dicembre 1981). Con la guerra dei sei giorni le forze armate d’Israele hanno occupato la restante parte della Palestina del Mandato britannico, in particolare la Cisgiordania, Gerusalemme Est e la striscia di Gaza.

Da allora, cioè dall’11 giugno del 1967 la parte della Palestina extra linea verde è divenuta un territorio occupato e lo Stato di Israele è divenuto una Potenza occupante, ai sensi del diritto internazionale.

Pochi mesi dopo il conflitto, il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione n. 242 ha ribadito la validità di quel principio del diritto internazionale che vieta ogni acquisizione di territorio attraverso il ricorso alla violenza bellica, che ricade nella norma “no fruits of aggression” ed, in conseguenza ha espressamente richiesto “il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto”. Il CdS ha anche delineato il percorso di una pace possibile, prevedendo che il ritiro dovesse essere accoppiato con la fine di ogni ostilità e con il riconoscimento della sovranità, della integrità territoriale e della indipendenza politica di ogni Stato della regione, nonché del suo diritto di vivere in pace all’interno di frontiere riconosciute, libero da ogni minaccia o atto di forza.

Essendo stata esclusa, fin dall’inizio la possibilità che i territori venissero inclusi all’interno dei confini dello Stato di Israele, questi territori si sono trovati in una situazione che dovrebbe essere tipicamente provvisoria (quella di territori occupati da una Potenza belligerante a seguito di un conflitto bellico) e come tale è regolata da quella particolare branca del diritto internazionale che è il diritto che regola i conflitti armati (diritto bellico o umanitario).

Generalmente le norme del diritto bellico sono molto vaghe, generiche, poco stringenti, almeno per quanto riguarda l’uso della violenza durante i combattimenti. Invece, quando i combattimenti sono cessati e ha inizio la fase di occupazione, cioè quando la fase bellica della guerra si è conclusa, i comportamenti dei belligeranti sono regolati con notevole precisione, con regole dettagliate e stringenti. In particolare esiste una convenzione approvata a Ginevra nel 1949, la Quarta Convenzione, che disciplina la situazione nei territori occupati, i doveri delle Potenze occupanti e i doveri degli altri Stati che hanno aderito alla Convenzione di Ginevra, praticamente della Comunità Internazionale, perché questa convenzione è stata votata e rettificata da quasi tutti gli stati della terra. (ivi compreso Israele che vi ha aderito il 6 gennaio 1952).

Questa Convenzione detta una serie di disposizioni per proteggere le persone che vivono dei territori occupati, che vengono considerate, per l’appunto “persone protette”.

Ci sono disposizioni specifiche sulla protezione delle persone, per esempio: divieto di coercizione fisica e morale (art. 31), divieto di tortura e brutalità (art. 32), divieto di pene collettive, di rappresaglie e di saccheggi(art. 33) Ci sono anche delle norme particolari che riguardano la tutela della conformazione sociale dei territori occupati, per esempio è importante la norma che vieta sia la deportazione della popolazione fuori dai territori occupati, sia il trasferimento di popolazione da parte dell’occupante nei territori occupati (art. 49). (ciò comporta – sia detto per inciso – che tutte le colonie realizzate da Israele nei territori occupati sono illegali). Ci sono norme sulla protezione dei fanciulli (art. 50), norme sul diritto al lavoro (art. 52), norme che vietano la distruzione di beni pubblici o privati che si trovino nei territori occupati (art. 53), addirittura c’è una norma che vieta di modificare l’ordinamento dei Magistrati.

Tra l’altro la IV Convenzione prevede che le leggi in vigore nei territori occupati devono conservare la loro validità (art. 64), deve restare in vigore anche la struttura dei servizi sociali fondamentali (art. 56) e la struttura della giustizia.
La Potenza occupante quindi deve curare l’amministrazione della giustizia, deve garantire la presenza ed il funzionamento di scuole e ospedali, deve assicurare l’approvvigionamento alla popolazione, tutelare il diritto al lavoro.

Alla luce di tutte queste obbligazioni nascenti dal diritto internazionale, è chiaro che l’occupazione militare di un territorio, se la Potenza Occupante volesse o fosse costretta a rispettare il diritto, sarebbe una cosa estremamente gravosa e sconveniente.

L’occupazione militare di un territorio non si può, pertanto, mantenere all’infinito, soprattutto non si può mantenere rispettando rigorosamente le norme delle convenzioni internazionali.

E’ forse per questo che lo Stato di Israele, dopo aver raccomandato alle proprie forze armate l’applicazione della IV Convenzione (con il bando militare n. 3 adottato il 7 giugno del 1967), ci ha ripensato e con l’ordinanza militare n. 144 del 22 ottobre 1967 ha revocato tale disposizione.

Da allora Israele ha adottato svariate motivazioni per giustificare il rifiuto di applicazione della IV Convenzione. Secondo la tesi ufficiale, esposta alle Nazioni Unite già dall’ottobre 1967, la IV Convenzione è volta a tutelare i diritti di sovranità di quegli Stati i cui territori siano stati occupati durante il conflitto da uno dei belligeranti. Nel caso di specie, secondo Israele, la Giordania non aveva titolo ad esercitare la sovranità sulla Cisgiordania e su Gerusalemme Est, come l’Egitto non aveva titolo ad esercitare la sovranità su Gaza. Trattandosi quindi di territori che non erano legittimamente assoggettati ad un potere sovrano, la situazione giuridica di tali territori non sarebbe contemplata (e tutelata) dalla IV Convenzione di Ginevra e dalle altre Convenzioni che riguardano i territori occupati nel corso di conflitti armati. Per questo Israele non considera sé stesso come una “Potenza Occupante”, bensì come un “Potere amministrante”. Non è per caso che nel linguaggio corrente della politica in Israele non si parla mai di “territori occupati” ma semplicemente di “territori”.

E’ evidente che questa singolare tesi non poteva ricevere credito nella Comunità internazionale. Ed infatti il Consiglio di Sicurezza, con numerose Risoluzioni, approvate all’unanimità (quindi con il voto favorevole degli USA), a partire dalla Risoluzione n. 465 del 1° marzo 1980, ha ribadito che Israele è una Potenza occupante ed è vincolata nell’amministrazione dei territori occupati, al rispetto delle obbligazioni derivanti dalla IV Convenzione di Ginevra e dagli altri rilevanti strumenti del diritto internazionale.

Nella definizione dello status giuridico dei Territori palestinesi occupati, c’è piena identità di vedute fra il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale che ha approvato numerose Risoluzioni in cui ribadisce la medesima qualificazione dello status dei territori, fra le ultime la Risoluzione 55/131, adottata l’8 dicembre 2000, che ha proprio ad oggetto l’applicabilità della IV Convenzione di Ginevra ai territori occupati da Israele.

Anche il Comitato internazionale della Croce Rossa (che è l’ente internazionale deputato alla vigilanza sull’applicazione delle Convenzioni del diritto umanitario), ritiene che la IV Convenzione debba essere applicata ai territori occupati nel 1967 ed ha sempre operato per esercitare le sue prerogative sul campo.

Sono questi i concetti che dobbiamo tener chiari per comprendere su quali basi l’Assemblea Generale ha preso in considerazione l’opera di costruzione del muro da parte di Israele, (attualmente ancora in corso nei territori occupati) con la Risoluzione A/ES-10/L.15 approvata il 21 ottobre 2003, sulla base di un testo, proposto – guarda caso – proprio dall’Italia che in quel periodo esercitava la Presidenza del Consiglio dei Ministri dei 15 paesi dell’Unione Europea.

Il testo della Risoluzione si apre con un richiamo alle principali Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, nelle quali, come abbiamo visto, sono stati delineati i caratteri essenziali della questione: definizione dello status dei territori occupati, definizione di Israele come Potenza Occupante, definizione delle obbligazioni a cui è soggetta la Potenza occupante, definizione di un percorso per porre fine all’occupazione e contemporaneamente per pervenire ad una soluzione definitiva del conflitto.

Quindi la Risoluzione ribadisce il principio della inammissibilità dell’acquisizione di territori attraverso la forza. (questo significa che è inaccettabile ogni forma di annessione strisciante o per fatti compiuti).

La Risoluzione prefigura la soluzione del conflitto sulla base del principio della creazione di due Stati che vivano l’uno a fianco dell’altro all’interno di frontiere sicure e riconosciute e condanna, com’è ovvio, ogni forma di ricorso alla violenza, al terrorismo ed alla distruzione. In particolare condanna gli attacchi terroristici e deplora le esecuzioni extragiudiziarie compiute da Israele.

Ancora una volta la Risoluzione ribadisce che bisogna mettere termine all’occupazione iniziata nel 1967 e richiama la soluzione dei due Stati.
Quindi la Risoluzione ribadisce che Israele, che viene qualificata ancora una volta Potenza occupante, deve rispettare integralmente e nei fatti la IV Convenzione di Ginevra del 1949.

Per conseguenza la Risoluzione condanna l’attività di impianto e di popolamento di colonie nei territori occupati ed ogni altra attività che comporti confisca delle terre, annessione di fatto del territorio e pregiudizio dei mezzi di sussistenza delle persone protette.

Infine la Risoluzione “esige” che Israele arresti e smantelli i lavori di costruzione del muro nei territorio palestinesi occupati, ivi compresa Gerusalemme est, osservando che la costruzione del muro si allontana dalla linea verde e che è contraria alle pertinenti disposizioni del diritto internazionale.”

E’ da osservare che la Risoluzione è stata votata quasi all’unanimità (contrari soltanto Stati Uniti, Israele, Isole Marshall e Micronesia).

A questo punto c’è da chiedersi che senso ha chiedere un “parere consultivo”, non vincolante, su un evento come la costruzione del muro, che violenta l’assetto geografico, economico sociale e politico dei Territori occupati, sul quale già c’è stata una così ferma condanna da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite?

Non si corre il rischio di accumulare nuove frustrazioni di fronte all’impotenza della Comunità internazionale e all’incapacità delle sue Istituzioni di assicurare il rispetto delle regole da tutti condivise?

Ebbene, malgrado le apparenze, le parole che pronunzierà la Corte di Giustizia dell’ONU, sono destinate ad avere una grande importanza. Perché la Corte è la bocca del diritto internazionale. La pronunzia della Corte, per quanto “consultiva” ha valore definitivo.

Essa ci dice cosa è legale e cosa è illegale nell’ordinamento internazionale, in altre parole qual è il diritto, quale diritto è applicabile in una determinata fattispecie.
Essa ci dice che gli attori politici che guidano gli Stati non sono onnipotenti, che devono rispettare delle regole, dei principi, dei valori.

Proprio per questo la sua pronunzia inquieta quelle stesse nazioni, come i paesi dell’Unione Europea che prima hanno proposto all’A.G. una condanna durissima e senza appello del muro, ma poi si sono astenute sulla Risoluzione proposta dai paesi arabi con la quale l’A.G. ha attivato la Corte Internazionale di Giustizia, ed adesso hanno assunto una posizione recalcitrante come se la vicenda della costruzione del muro potesse essere confinata nel limbo delle political questions, cioè di quelle questioni che la politica deve affrontare e risolvere secondo criteri di opportunità, senza subire i vincoli del diritto.

In particolare il Governo italiano, per bocca del sottosegretario Boniver, ha dichiarato che il voto di astensione all’ONU è stato fondato su due principi: contrarietà alla costruzione della barriera di sicurezza nella misura in cui essa si discosta dalla linea verde ed analoga contrarietà ad un coinvolgimento della Corte Internazionale di giustizia in una questione dal carattere eminentemente politico.
L’insostenibile contraddittorietà di questa posizione è del tutto evidente poiché la Risoluzione del 21 ottobre – come abbiamo visto – non contiene una condanna “politica” del muro, non condanna il muro perché lo ritiene inopportuno o pregiudizievole per le ragioni della politica o del negoziato fra tutte le parti in causa. La costruzione del muro viene condannata perché considerata illegale, cioè viene considerata un’azione in contrasto con obbligazioni erga omnes che Israele, in quanto Potenza occupante deve rispettare nei confronti di tutta la comunità internazionale.

Insomma il Governo italiano, che ha coinvolto nella sua sciagurata posizione anche gli altri Paesi dell’Unione Europea, da un lato ha dichiarato all’ONU che la costruzione del muro è illegale, tanto da “esigere” da Israele l’arresto dei lavori e lo smantellamento di quelli già effettuati, dall’altro lato non vuole sentirselo dire dalla Corte di Giustizia. Forse per evitare il fastidio di sentirsi vincolato nei suoi comportamenti sul piano internazionale al rispetto dei principi di diritto che la Corte andrà ad affermare.

In effetti la facilità e l’impunità con cui alcuni Stati calpestano norme basilari del diritto internazionale, testimonia un assetto delle relazioni internazionali in cui gli attori principali tendono a liberarsi (anche sul piano interno) dei vincoli fastidiosi del diritto, anche se poi richiamano gli altri al rispetto di tali vincoli con le risoluzione del C.d.S. o dell’A.G.

E tuttavia questo processo è molto meno facile e scontato di quanto possa sembrare.

Se è vero che non esistono strutture o istituzioni che possano assicurare il rispetto del diritto internazionale, è anche vero che garanzia c’è, una garanzia che può essere fragile, inconsistente, ma a volte può rivelarsi pesante come un macigno: l’orientamento dell’opinione pubblica internazionale.

A questo punto è interessante notare che la Corte di Giustizia non deve limitarsi a dire cosa deve fare o non deve fare Israele, ma deve dire anche cosa devono fare o cosa non devono fare gli altri Stati.

Infatti quando l’Assemblea chiede alla Corte: “quali sono le conseguenze legali che derivano dalla costruzione del muro”, la risposta non riguarda soltanto Israele, ma concerne tutta la Comunità internazionale.

Al riguardo bisogna considerare che l’art. 1 della IV Convenzione (norma comune a tutte le altre Convenzioni di Ginevra del 1949) dichiara esplicitamente che tutte le parti contraenti si impegnano “a rispettare e a far rispettare la presente Convenzione in ogni circostanza.”

Come ha osservato Jean Pictet nell’autorevole commentario del CICR alla Convenzione di Ginevra, “il modo di operare del sistema di protezione previsto dalla Convenzione richiede che le Parti contraenti non devono solo accontentarsi meramente di applicare esse stesse le previsioni della Convenzione, ma dovrebbe essere in ogni caso in loro potere assicurarsi che i principi umanitari delineati dalla Convenzione siano applicati universalmente.” (Le système de protection prévu par la Convention exige en effet, pour être efficace, que les Parties contractantes ne se bornent pas à appliquer elles-mêmes la Convention, mais qu’elles fassent également tout ce qui est en leur pouvoir pour que les principes humanitaires qui sont à la base des Conventions soient universellement appliqués.)
La pronunzia che la Corte di Giustizia emetterà sul muro è importante perché fornisce un’arma alla opinione pubblica internazionale per orientare le scelte degli Stati e giudicare i comportamenti delle élites dirigenti.

E’ compito nostro utilizzare gli strumenti di conoscenza, di giudizio e di orientamento che la Corte ci fornirà per delegittimare le scelte ed i comportamenti di quegli attori politici che pretendono di far prevalere le ragioni della forza sul rispetto delle regole che l’umanità faticosamente si è data nel suo cammino storico per assicurare la convivenza pacifica dei popoli ed il rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo.

In definitiva le parole della Corte sono importanti, sono parole che possono far crollare i muri. E’ già successo un’altra volta in Palestina, ricordate come è crollato il muro di Gerico?

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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