25 aprile: il tribunale invisibile

Con una legge del 2000 è stato istituito il 27 gennaio, ricorrenza della liberazione del lager di Auschwitz da parte dell’armata rossa, come “Giorno della Memoria”. Il giorno della memoria è stato istituito in diversi Paesi su impulso dell’ONU, ma noi in Italia ce l’avevamo già, fu istituito nel 1946 quando il 25 aprile venne dichiarato festa nazionale in ricordo della liberazione dell’Italia dal nazifascismo.

Questo è il senso del 25 aprile, fare memoria della lotta di liberazione e degli approdi che essa ha apportato nel nostro Paese: la riconquista della libertà per il popolo italiano. Non una libertà come mero patrimonio morale, ma una libertà incarnata, insediata nel sangue e nella carne di una comunità di uomini liberi che si è riconosciuta in un orizzonte comune nel quale sono istituite l’eguaglianza, la giustizia sociale, la pace, il rispetto della dignità umana. Quest’orizzonte comune è la Costituzione della Repubblica italiana.

Il 25 aprile non ci parla solo del nostro passato, ci interroga sul nostro presente e ci pone della domande sul nostro futuro. Ci chiama a confrontarci con quel patrimonio di beni pubblici repubblicani che ci è stato consegnato dalla Resistenza.

Ebbene, in quel patrimonio, la giustizia, l’eguaglianza, la dignità umana non sono solo rivendicate, ma sono istituite e garantite attraverso una trama istituzionale che le rende resistenti alle insidie e alle sfide del tempo e della politica. La Costituzione ha consolidato la libertà che ci è stata donata dalla Resistenza, rendendo impossibile ogni forma di “dittatura della maggioranza” e di restaurazione del passato fascista.

Proprio per questo da molti anni da un vasto arco di forze politiche la Costituzione è stata vissuta come un impaccio, come una serie di fastidiosi vincoli, di cui sbarazzarsi per restaurare l’onnipotenza della politica. Per questo da molti anni la festività del 25 aprile suscita polemiche e segnali sempre più forti di insofferenza da parte del ceto politico.

Ma questo è un anno particolare perché il messaggio del 25 aprile si deve confrontare con una realtà in profonda contraddizione con il quadro dei valori costituzionali. Se questo è il contesto in cui siamo immersi, allora è facile comprendere la fuga dal 25 aprile dei politici che di questa scena sono gli autori, a cominciare dal loro capobastone, l’uomo col mitra, che si è sfilato dalle celebrazioni del 25 aprile, dichiarando: “siamo nel 2019 e mi interessa poco il derby fascisti-comunisti.” Simili dichiarazioni sono indice della distanza siderale di questo ceto politico dai valori della Resistenza scolpiti nella Costituzione.

Tuttavia questa fuga è ben comprensibile: il 25 aprile non si tratta di giudicare il passato ma di esserne giudicati.   In un discorso tenuto al teatro lirico di Milano, il 28 febbraio 1954, Piero Calamandrei così affrontava il tema: “In queste celebrazioni che noi facciamo nel decennale della Resistenza, di fatti e di figure di quel tempo, noi ci illudiamo di essere qui, vivi, che celebriamo i morti. E non ci accorgiamo che sono loro, i morti, che ci convocano qui, come dinanzi ad un Tribunale invisibile, a render conto di quello che in questi 10 anni possiamo aver fatto per non essere indegni di loro, noi vivi. In tutte le celebrazioni torna, ripetuta in cento variazioni oratorie, una verità elementare che nelle lettere dei condannati a morte è espressa come una naturale e semplice certezza: che i morti non hanno considerato la loro fine come una conclusione e come un punto d’arrivo, ma piuttosto come un punto di partenza, come una premessa, che doveva segnare ai superstiti il cammino verso l’avvenire (.) Quando pensiamo a loro per giudicarli, ci accorgiamo che son loro che giudicano noi”.

Di fronte a questo Tribunale invisibile i nostri principali leaders politici sono rimasti contumaci, anzi si sono resi latitanti. Come potrebbero spiegare a coloro che hanno testimoniato con la vita la loro fede nell’umanità, la loro politica di restaurazione della discriminazione e di disprezzo dei diritti umani, espressa in pensieri, parole, opere ed omissioni; cioè in leggi, provvedimenti amministrativi, condotte operative, propaganda e discorsi d’odio. Una politica spinta fino all’estremo limite di programmare la morte per naufragio dei dannati della terra che fuggono dalla Libia, ovvero la loro cattura e riconduzione forzata in quei lager dove – per documentazione di enti internazionali – si pratica la tortura, lo stupro, la riduzione in schiavitù?

Se vogliamo dare un senso a questo 25 aprile del 2019, dobbiamo interrompere questa latitanza e ricondurre i politici che in questo momento fanno il bello e cattivo tempo in Italia di fronte al giudizio del Tribunale invisibile della Resistenza.

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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