Europa, Mercato e Diritti sociali

(Questione Giustizia n.2/1999)


1. Una ricerca di senso nella costruzione europea.

La nostra ricerca parte da un’interrogativo sulla dimensione di senso della complessa costruzione europea. E’ possibile identificare l’architrave, l’asse portante dell’intero edificio comunitario, in altre parole il principio costitutivo dell’Unione Europea? Al riguardo è stato osservato che:

“Può darsi che nel suo gene originario l’Europa non avesse già l’impronta rigida della natura economica che poi la dominò. Numerose fonti convengono nell’attestare che i padri franco tedeschi ed italiani della costruzione europea consideravano a base di essa, assieme all’intento dello sviluppo economico in un grande mercato altri scopi più generali e più spirituali: la edificazione di una pace intereuropea con solide radici, che impedisse il ripetersi delle rivalità e delle guerre storiche, di una democrazia stabile; la costruzione di una unità politica di grandi dimensioni capace di competere con Stati Uniti e Unione Sovietica nell’ambito mondiale e così di mantenere all’Europa personalità istituzionale e potere mondiale. Non intendiamo qui rifondare la storia dell’idea e della costruzione europea, ma è certo che a metà degli anni cinquanta la svolta restrittiva era già maturata e che l’idea dell’Europa “funzionale”, cioè di una costruzione sospinta dalla motivazione economica, si trova già insediata come l’elemento unificatore di tutto il processo.

Di solito l’impostazione funzionale della costruzione europea viene citata in senso positivo, come l’elemento che ha consentito di superare i nazionalismi, le rivalità politiche e le difficoltà ideali e pratiche che hanno ostacolato il cammino dell’unificazione. E certo questa fu, per dir così, la decisiva astuzia con la quale i padri fondatori dell’Europa riuscirono a vincere le difficoltà. Nondimeno, da quel momento – respinta sullo sfondo degli obiettivi futuri l’integrazione politica – scopi obiettivi e regole giuridiche essenzialmente costituzionali, ossia fondative dell’unità europea sono stati ristretti al campo economico, con il sacrificio, rivelatosi non di breve durata, delle intenzioni più vaste ed ulteriori, pur enunciate come meta ultima.”[1]

2. Il principio costitutivo dell’Unione Europa: un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza.

Se si effettua un esame dei fini ultimi, degli scopi e degli obiettivi concreti espressi nel preambolo e nei primi articoli dei diversi trattati, considerando la situazione normativa vigente prima delle modifiche introdotte dal Trattato di Amsterdam, quello che emerge è che i fini dell’Unione continuano a consistere essenzialmente nella promozione dello “sviluppo delle attività economiche”, nella “crescita” del tenore di vita, nella “coesione economica”; gli obiettivi sono “l’instaurazione di un mercato comune e di una unione economica e monetaria”; gli strumenti sono una serie di politiche ed azioni comuni essenzialmente di carattere economico. Così l’art. 3A del trattato che istituisce la Comunità europea prevede che la politica economica è condotta conformemente al principio di una economia di mercato aperta ed in libera concorrenza. Tale principio è indubbiamente l’architrave che sorregge l’intera costruzione. Esso è stato ossessivamente ripetuto nel testo del Trattato della Comunità Europea (vedi art. 3A2, 102A e 105.1). Pertanto si configura come una sorta di principio supercostituzionale. Al riguardo è stato osservato che:

“Non dunque una serie di principi articolati come si trovano nella costituzioni statali: democrazia, libertà, eguaglianza, socialità, collaborazione internazionale che, unificati dal principio democratico, costituiscono l’ossatura degli Stati; ma un unico principio – quello dell’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza – è formulato nei trattati pressoché silenziosi su quegli altri principi.”[2]

3. Il primato dell’economia: la separazione fra la politica monetaria e la politica economica generale.

Questo principio supercostituzionale del primato dell’economia si articola attraverso un netta separazione della politica monetaria dalla politica economica generale.

Al riguardo l’art. 3A (inserito al trattato di Maastricht nel Trattato sulla Comunità Europea), seguito dall’art. 105 e dal protocollo del SEBC dichiara che la politica monetaria e quella del cambio hanno l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, solo fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche generali della Comunità.

Da ciò ne consegue che il SEBC, la BCE e persino le Banche centrali nazionali sono del tutto indipendenti da istruzioni o influenza provenienti da qualunque organo comunitario o statale (art. 107, divenuto 108 nel testo consolidato con Amsterdam).

Separazione ed indipendenza vogliono dire superiorità e vincolo; in altre parole nel rapporto fra politica monetaria e politica economica generale, è quest’ultima che viene a subire l’impatto condizionante delle decisioni monetarie. Il logico corollario del teorema della separazione è quello che la Comunità e gli Stati membri devono necessariamente adeguarsi ai criteri della politica monetaria. Ciò comporta, come recita l’art. 3A (adesso art. 4), il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane, nonché bilancia dei pagamenti sostenibile.

Tali principi sono interpretati ed allo stesso tempo resi stringenti e vincolanti per tutti gli Stati dalla minuziosa disciplina contenuta nell’art. 104C (ora 104) del Trattato Ce, che spiega cosa vuol dire che gli Stati devono evitare disavanzi pubblici eccessivi, prevedendo un valore di riferimento nel rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo (precisato numericamente nel protocollo), e presidiandolo con un rigido sistema sanzionatorio contestualmente previsto. Le sanzioni sono applicabili dal Consiglio, che in questo caso delibera a maggioranza. Ne deriva che l’insieme delle prescrizioni dettate per la politica monetaria è messo dal trattato al entro della propria sistematica e condiziona tutte le scelte che possono essere fatte mediante i bilanci pubblici. E’ stata creata così una sequenza a cascata. La politica monetaria, concepita dal Trattato di Maastricht come il centro di gravità del sistema, vincola la politica finanziaria di ciascuno Stato (i famosi vincoli di Maastricht!). La politica finanziaria, a sua volta, vincola la politica economica. La politica economica vincola le politiche sociali. Questa sequenza è stata resa ancora più rigida dal c.d. “Patto di stabilità”, approvato dal Consiglio Europeo di Dublino (dic. 96) e riconfermato dal Consiglio Europeo di Amsterdam del giugno 1997, mediante il quale gli Stati membri si impegnano a rispettare una situazione di bilancio a medio termine comportante un saldo vicino al pareggio o positivo, indicato nei loro programmi di stabilità o convergenza e a mettere in atto i correttivi di bilancio che ritengono necessari per conseguire gli obiettivi dei loro programmi di stabilità o convergenza. In questo modo i c.d. vincoli di Maastricht sono stati resi ancora più stringenti. Questa catena di condizionamenti ha fatto si che sia stata proposta in dottrina la tesi che i vincoli comunitari comportano l’indebolimento e la subordinazione degli obiettivi e delle misure sociali previste dalla Carta costituzionale.[3] Analogamente è stata sviluppata la tesi che vuole che le disposizioni a carattere economico-sociale, previste dal titolo III della Costituzione, inadeguate alla nuova situazione di sovranità dei mercati finanziari, siano state sostanzialmente superate dai principi costituzionali della Unione europea, che ristabiliscono la supremazia del mercato.[4]

In definitiva, è stato osservato che “L’Unione è l’istituzionalizzazione e la giuridicizzazione dell’economia generalizzata in un ordinamento che tende a farsi complessivo e comunque continuamente espansivo e ad assorbire lo spazio degli Stati.”[5]

4. Il deficit democratico.

E’ all’interno di questo contesto che deve essere affrontato il problema dei limiti e delle insufficienze dal punto di vista democratico della costruzione europea; il c.d. “deficit democratico”, sul quale tutti convengono senza riconoscere, però, le cause che lo determinano. Il problema si articola su tre differenti livelli:

A) Assenza di una fondazione democratica dell’ordinamento stesso

La Comunità Economica europea, e la successiva trasformazione in Unione Europea, il Mercato Unico, la Moneta unica sono derivate tutte da atti fondativi basti su trattati internazionali, negoziati dai governi in modo quasi sempre riservato e presentati ai Parlamenti per la ratifica a “scatola chiusa”. Gli atti di ratifica sono stati generalmente assicurati con leggi ordinarie, sebbene i trattati abbiano introdotto rilevanti modifiche costituzionali nell’ordinamento dei singoli Stati. Solo in qualche caso si è fatto luogo a Referendum e soltanto alcuni paesi (Francia e Spagna in via preliminare e Germania in via contestuale) hanno proceduto ad atti di revisione costituzionale per adattare le trasformazioni introdotte dai nuovi Trattati ai rispettivi ordinamenti costituzionali.

B) Assenza di una procedura compiutamente democratica nella formazione del processo decisionale.

Innanzitutto per quanto riguarda il processo legislativo nell’Unione, le decisioni normative sono assunte da un organo intergovernativo, il Consiglio dei Ministri, in massima parte deliberante all’unanimità, su iniziativa, in diritto ed in fatto, della Commissione, agenzia tecnica, che svolge sostanzialmente le funzioni di Governo nella complessa costruzione europea, mentre il Parlamento europeo partecipa in modo subalterno e con un ruolo sostanzialmente consultivo. La Banca centrale europea, l’unico organo realmente federale, è completamente indipendente dai processi politico rappresentativi ed è politicamente irresponsabile.

C) Assenza di un ruolo di reale partecipazione dei parlamenti nazionali.

I parlamenti nazionali partecipano in modo molto limitato all’attuazione del diritto comunitario, che avviene – almeno in Italia – per lo più attraverso un sistema prevalente di deleghe legislative al Governo e di regolamenti, ma, quel che più conta, dispongono di scarsi strumenti per controllare ed indirizzare le scelte che i Governi compiono in sede di Consiglio dei Ministri. Naturalmente in questo campo il problema si presenta con aspetti diversi a seconda delle differenti realtà nazionali. In Germania questo tipo di “deficit” è stato risolto da una modifica costituzionale che ha costituzionalizzato” la procedura di partecipazione del Bundestag, del Bundesrat e dei Lander alla formazione delle decisioni che il Governo deve assumere per gli atti legislativi dell’Unione Europea.

5. Inesistenza di una Costituzione europea: i limiti di Maastricht.

Il Trattato di Maastricht è il trattato che fonda l’Unione Europea, determinando la definitiva trasformazione delle Comunità Europee in Unione; fa nascere l’Unione Monetaria, la moneta unica e la Banca centrale europea. In un certo senso esso rappresenta la costituzione dell’Unione Europea, anzi fa le funzioni della costituzione che non c’è. Tutte le costituzioni si aprono con una dichiarazione dei diritti. In Maastricht non c’è. C’è solo una norma, l’art. F che si appella alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e fa un vano richiamo alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri che, com’è noto, sono un fantasma evanescente. La Convenzione europea non è una delle carte internazionali più avanzate in materia di diritti dell’uomo; essa contempla in sostanza un numero limitato di diritti civili e trascura la materia sociale, a differenza dei ben più incisivi Patti internazionali sui diritti politici e civili ed economici e sociali elaborati dalle Nazioni Unite nel 1966.

E’ significativo che dal trattato di Maastricht non sia stata menzionata nè la Carta Europea del Lavoro del 1961 (che, seppure in modo non sempre felice, contempla i principali diritti a carattere sociale), nè la Carta Comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989.

6. I rilievi critici della Corte Costituzionale Tedesca.

La critica più puntuale, in sede giurisdizionale, dei limiti del Trattato di Maastricht è quella della Corte Costituzionale Tedesca, la quale con la nota e discussa sentenza del 12 ottobre 1993, ha ammesso la compatibilità del Trattato con la Costituzione federale di Bonn, ma, nello stesso tempo, ha manifestato molti dubbi e perplessità, passando ai raggi x i limiti dell’impostazione complessiva del Trattato.

In particolare la Corte ha osservato che: “il Trattato di Maastricht attribuisce alle istituzioni europee – in particolare con l’estensione delle competenze comunitarie e con l’incorporazione della politica monetaria – nuove attribuzioni e competenze essenziali che non sono per ora sostenute, a livello dei Trattati, da un rafforzamento o da una estensione corrispondenti delle basi democratiche. Ciò indica una fase nuova dell’unificazione europea che, secondo la volontà delle parti contraenti, deve rafforzare il carattere democratico e l’efficienza di funzionamento delle istituzioni. (..) Per questo l’elemento determinante è che i fondamenti democratici dell’Unione si sviluppino allo stesso ritmo dell’integrazione e che, pur nell’ambito di quella, una democrazia vitale resti salvaguardata negli Stati membri. “

Ribadisce la Corte che, proprio in relazione a questo deficit democratico dell’Unione il parlamento tedesco ha introdotto un nuova norma nella legge fondamentale, l’art. 23 che parla esplicitamente dello sviluppo di un’Unione Europea “impegnata al rispetto dei principi democratici dello Stato di diritto, sociale e federale, nonché del principio di sussidiarietà, e che garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente equivalente a quella assicurata dalla Legge fondamentale.”[6]

La Corte tedesca denunzia, fra le righe della decisione, il perdurare di una concezione “mercantilistica” dell’Unione Europea, la mancanza di una costituzione sociale dell’Europa, ma anche, la difficoltà a mantenere il carattere sociale delle singole Costituzioni, a fronte degli imperativi supremi imposti ai singoli Stati dagli accordi siglati a Maastricht, in particolare quelli concernenti il passaggio alla c.d. “terza fase” dell’Unione.[7]

Per questo è stato rilevato da Giuseppe Bronzini, che: “il passaggio dall’Europa dei mercanti all’Europa dei cittadini impone che si colmi la lacuna costituzionale dell’Europa. Solo l’approvazione di un bills of rights che copra la triplice dimensione della moderna cittadinanza, può consentire, da un lato una compiuta giustiziabilità, nei confronti di ogni atto giuridico, statale o sovranazionale, dei diritti fondamentali che in genere le costituzioni nazionali riservano al cittadino, e dall’altro lato che i medesimi diritti svolgano anche il ruolo di principi costituzionali, strutture di valore e non solo meri diritti soggettivi, orientando ed indirizzando l’intera azione degli organi comunitari. Per questo decisivo passaggio non basta di certo un semplice catalogo dei diritti, che statisticamente descriva alcune prerogative dei cittadini europei: occorre, invece, che agli stessi sia anche attribuita una posizione giuridica “riflessiva”, la continua possibilità di partecipare politicamente all’elaborazione e alla specificazione dello status di cittadino, cioè che si mantenga e si sviluppi, anche a livello dell’Unione, il nesso interno, il doppio legame, fra diritti fondamentali e formazione democratica della sovranità popolare che, come ha insuperabilmente mostrato J Habermas nel suo monumentale “fatti e norme” costituisce il valore più profondo iscritto nelle costituzioni contemporanee.”[8]

7. Da Maastricht ad Amsterdam: alla ricerca di una Europa sociale.

L’opera di aggiornamento è di revisione del Trattato di Maastricht, portata avanti dalla Conferenza Intergovernativa (CIG), è cominciata con la riunione del Consiglio europeo di Torino del 29 marzo 1996 e si è conclusa con il Consiglio europeo di Amsterdam del 18 giugno 1997. Il nuovo trattato è stato firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997.

Durante i lavori della CIG si sono mobilitate numerose istanze politiche, provenienti soprattutto dal mondo dell’associazionismo e della solidarietà che, con iniziative varie, hanno posto ai governi l’urgenza di superare i limiti di Maastricht, e di correggere la direzione di marcia della complessa costruzione europea, facendo emergere la dimensione di una Europa sociale e solidale.

Fra queste iniziative deve essere segnalato l’Altro Vertice, per una Europa dei popoli fra i popoli, organizzato a Firenze in concomitanza con i lavori del Vertice europeo del giugno 1996. L’Altro vertice ha lanciato un appello ai Governi impegnati nei lavori della CIG di questo tenore:

“Noi sottoscritti esponenti e rappresentanti delle associazioni della società civile, dei movimenti, delle Comunità, delle reti di solidarietà, convenuti a Firenze per “l’Altro Vertice”,

chiediamo
che la Conferenza intergovernativa per la rinegoziazione del Trattato di Maastricht ascolti la voce dei popoli e faccia fare un salto in avanti al processo dell’integrazione comunitaria, portando a compimento la definizione dell’identità democratica dell’Unione Europea.

La democrazia ed il diritto sono le risorse fondamentali per definire il volto della nuova Europa e dare autorevolezza e legittimità alle istituzioni dell’Unione, per cui o la costruzione dell’Unione Europea si affiderà al diritto o l’Unione Europea è destinata al fallimento, sotto l’incalzare degli egoismi localistici e degli interessi corporativi. O la nuova Europa sarà l’Europa dei popoli fra i popoli, della pace, dei diritti civili e sociali, dell’integrazione sociale e della fratellanza, contro tutte le esclusioni, o non sarà.

Il Trattato istitutivo dell’Unione, anche se partorito da una Conferenza intergovernativa e non da un parlamento democraticamente eletto, è destinato ad essere la Costituzione dell’Unione Europea, il Patto costitutivo che delinea i fondamenti della convivenza dei popoli e degli individui nel quadro delle istituzioni dell’Unione.

Non può esistere una costituzione senza una trama di principi fondamentali sui quali fondare la convivenza e l’esercizio dei pubblici poteri. Non a caso tutte le costituzioni democratiche si aprono con una dichiarazione dei diritti. Anche il Trattato istitutivo dell’Unione deve delineare un quadro di principi che sancisca tutti i diritti fondamentali, inclusi quelli sociali, conferisca funzioni normative al Parlamento Europeo, vincoli alla responsabilità nei suoi confronti gli organi esecutivi dell’Unione e ne sottoponga tutte le norme al controllo di costituzionalità. “

8. Le novità di Amsterdam.

L’identità dell’Unione Europea esce notevolmente ridisegnata dal Trattato di Amsterdam. Quanto questo sia dipeso dalla ondata di proteste organizzate in Europa, che sono rimaste comunque sottotono, o dal mutato scenario politico, che ha visto il tramonto degli epigoni del Thacherismo in Inghilterra, o dall’aggravarsi della disoccupazione, trainata dalle politiche monetariste, è difficile dirlo. E’ difficile anche fare previsioni sul reale impatto di Amsterdam sul deficit democratico strutturale dell’Unione. In questa sede, quello che conta rilevare sono le specificità che, in ordine ai singoli argomenti, caratterizzano il passaggio da Maastricht ad Amsterdam.

8.1 Diritti fondamentali.

Il Trattato di Amsterdam contiene alcune incisive disposizioni su diritti fondamentali e non discriminazione. Per cominciare modifica l’art. F del Trattato di Maastricht (divenuto art. 6 del TUE nella versione consolidata) aggiungendovi il seguente comma:

“L’unione si fonda sui diritti di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.”

Inoltre, sempre con riferimento all’art. F, il Trattato include una dichiarazione finale sull’abolizione della pena di morte.

Alla luce delle altre disposizioni sopravvenute con Amsterdam, non vi è alcun dubbio che nel concetto di diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, richiamato dall’art. F, nuova versione, vi rientrino a pieno titolo i diritti sociali.

Infatti Amsterdam introduce un nuovo quarto comma nel preambolo del TUE in cui si conferma l’attaccamento dell’Unione ai diritti sociali fondamentali definiti dalla carta sociale europea del 1961 e dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989.

In aggiunta, questi stessi documenti, colmando una grave lacuna di Maastricht, sono stati esplicitamente richiamati dall’art. 136 del Trattato CE (che ha sostituito il vecchio testo dell’art. 117), che al primo comma recita testualmente:

“La Comunità e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione.”

Questo riconoscimento del valore “costituzionale” dei diritti fondamentali dell’uomo (inclusi i diritti sociali) viene rafforzato da una speciale procedura di sanzionamento politico, introdotta dal Trattato di Amsterdam con l’art. F.1 (art. 7 del TUE nel testo consolidato). Tale norma prevede che: “il Consiglio, riunito nella composizione dei Capi di Stato e di Governo, deliberando all’unanimità, su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e, previo parere conforme del Parlamento Europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei principi di cui all’art. 6, par.1, dopo aver invitato il Governo dello Stato membro in questione a presentare osservazioni.”

Una volta effettuata tale constatazione, il Consiglio, con deliberazione a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti dello Stato membro, ivi compreso il diritto di voto. E’ importante precisare che, ai fini della validità delle deliberazioni, non viene preso in considerazione il voto dello Stato interessato alla decisione e che le astensioni non ostano alla assunzione della delibera di constatazione di cui si è detto sopra.

8.2 Il principio di non discriminazione.

Anche il principio di non discriminazione, già presente nei Trattati, riceve con Amsterdam un significativo rafforzamento. Innanzi tutto viene introdotta una norma, ex novo, che introduce un principio generale di non discriminazione. Si tratta dell’art. 6/A (divenuto art. 13 nel testo consolidato del TCE), che recita:

“Fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell’abito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.”

Vengono poi introdotte due modifiche, l’una correlata all’altra, nelle norme di cui all’art. 2 e 3 del TCE. Con la prima viene introdotta, fra le finalità che la Comunità deve perseguire, quella di promuovere: “la parità fra uomini e donne”. Con la seconda viene introdotto un nuovo capoverso nell’art. 3, con il quale si stabilisce che: “L’azione della Comunità, a norma del presente articolo, mira a eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità fra uomini e donne.”

Sotto il profilo economico sociale, il principio delle pari opportunità viene rafforzato attraverso la riscrittura del vecchio art. 119 (divenuto art. 141 nel testo consolidato del TCE). In particolare viene stabilito che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, con la procedura di codecisione di cui all’art. 251, “adotta le misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.”

8.3 Diritti sociali e politica economica.

I diritti sociali per esistere devono essere innestati nella politica economica. Essi, infatti, costituiscono un condizionamento della politica economica che, in qualche misura corregge le mere dinamiche economiche e limita la “sovranità” del mercato. Il Trattato di Amsterdam non si limita ad estendere i diritti fondamentali anche al campo dei diritti economico-sociali, ma detta delle significative disposizioni in tema di politica economica. In particolare il Trattato dedica un intero capitolo, il capo III al tema dell’occupazione ed inserisce la promozione di un elevato livello di occupazione fra i compiti e gli obiettivi dell’Unione. In particolare viene modificato l’art. B (ora art. 2 del testo consolidato del TUE) e l’art. 2 del TCE. Nell’articolo 3 del TCE viene introdotto una nuova proposizione (i) che prevede: “la promozione del coordinamento fra le politiche degli Stati membri in materia di occupazione al fine di accrescerne l’efficacia con lo sviluppo di una strategia coordinata per l’occupazione.” Amsterdam introduce nel TCE, dopo le disposizioni sulla politica economica e monetaria, un nuovo titolo (l’VIII) relativo all’occupazione, composto da sei articoli e due dichiarazioni. In particolare l’art. 125 prevede che gli Stati membri e la Comunità si adoperano per sviluppare una strategia coordinata a favore dell’occupazione; l’art. 126 prevede che gli Stati membri considerano la promozione dell’occupazione una questione di interesse comune e coordinano in sede di Consiglio le loro azioni al riguardo; l’art. 127 prevede che La Comunità contribuisce ad un elevato livello di occupazione promuovendo la cooperazione fra gli Stati membri, nonché sostenendo e, se necessario, integrandone l’azione…Nella definizione e nell’attuazione delle politiche e delle attività comunitarie si tiene conto dell’obiettivo di un livello di occupazione elevato.

Quindi l’art. 128 prevede che il Consiglio europeo, ogni anno debba prendere in considerazione la situazione dell’occupazione ed adottare degli indirizzi di massima, sulla base dei quali il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, con la procedura di codecisione, adotta degli orientamenti di cui devono tenere conto gli Stati membri nelle rispettive politiche in materia di occupazione. Inoltre il Consiglio deve procedere annualmente all’esame delle politiche dell’occupazione adottate dagli Stati membri, ai quali può rivolgere raccomandazioni, deliberando a maggioranza qualificata.

Alla luce di queste innovazioni il principio della promozione della massima occupazione diventa uno dei cardini della politica economica, che affianca, e in questo senso ridimensiona, il principio della signoria della politica monetaria, che ha come obiettivo principale quello di mantenere la stabilità dei prezzi.

Certo il concetto di occupazione è ambiguo. Invocano, infatti, l’occupazione i guru del pensiero unico che domandano lo smantellamento delle garanzie del mercato del lavoro, invocano la flessibilità e la piena libertà dell’impresa di assumere, licenziare e sfruttare il lavoratore senza alcun condizionamento di regole. Tuttavia, quando nel Trattato di Amsterdam si parla di promozione dell’occupazione, si deve comunque intendere che la strada della flessibilità selvaggia è stata per sempre sbarrata dal richiamo ai diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989. Quindi questa insistenza nell’obiettivo della promozione dell’occupazione introduce nella costituzione europea una sorta di principio lavoristico, simile all’analogo principio di cui alla costituzione italiana.

9. La costruzione europea dopo Amsterdam: considerazioni finali e rilievi critici.

Dopo la riscrittura operata da Amsterdam l’identità della costruzione europea è stata significativamente corretta e resa certamente più complessa. Il principio della economia di mercato aperta ed in libera concorrenza (cioè il principio della sovranità del mercato) rimane sempre il caposaldo della costruzione europea, però perde il suo fondamento di assolutezza, non si può più ammantare di integralismo. Il mercato diviene meno sovrano perchè deve farei conti con la politica che ha l’obbligo di intervenire per correggere quelle dinamiche spontanee che producono esclusione sociale, emarginazione, discriminazione, e quindi per garantire i diritti dell’uomo, considerati come diritti incarnati. Introducendo la promozione dell’occupazione fra gli obiettivi fondamentali dell’Unione, in un’epoca in cui vi sono 18 milioni di disoccupati, è stata introdotto un principio di coscienza infelice che ridimensiona l’onnipotenza del mercato ed apre un percorso storico suscettibile di ulteriori sviluppi.

Rimane il problema del deficit democratico, del difetto di fondazione democratica dell’intera costruzione, dell’assenza di una Costituzione che sia realizzata secondo le procedure politico-rappresentative, del surplus di potere della tecnocrazia.

A questo difetto si può reagire solo se si apre una dinamica politica. Il merito di Amsterdam è di riaprire questa dinamica. Deve essere seguito con particolare attenzione il percorso di attuazione dei diritti nella nuova dimensione introdotta da Amsterdam. (si vedano in proposito gli interessanti spunti del percorso “verso uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia”, documento di lavoro, redatto dall’Europarlamentare Rinaldo Bontempi, pubblicato in allegato a questo speciale). Anche la separatezza totale della BCE, che è frutto di un sacrificio celebrato sull’altare dell’idolo della stabilità, può essere ridimensionata. L’idolo della stabilità dei prezzi può essere ridimensionato e riportato nella sua naturale dimensione di strumento di una politica economica orientata su obiettivi sociali. Il patto preelettorale stipulato fra Jospin e Schroeder perchè l’azione della BCE diventi convergente con gli obiettivi della politica economica che, dopo Amsterdam, non possono più prescindere dagli obiettivi sociali, sta a dimostrare che, sotto il profilo politico, è possibile intravedere una ulteriore evoluzione. Il principio della stabilità della moneta deve essere temperato, quindi, con quello di un elevato livello di occupazione. Quest’ultimo obiettivo è, indubbiamente, un obiettivo polemico, frutto di una polemica rappresentazione della realtà economico sociale.

In conclusione possiamo ritenere che non è ancora tramontato, anzi è diventato più attuale, il sogno di Alex Langer che nel giugno del 1994 scriveva:

“Vivere in pace fra gli uomini e con la natura. Raddrizzare lo sviluppo impazzito verso una civiltà solidale e sostenibile. Assicurare dignità e lavoro a tutti. Difendere l’eredità comune: l’ambiente, il patrimonio culturale, il diritto. Affrontare insieme a tutti gli altri europei le sfide più urgenti: la convivenza in Europa, la salvaguardia della natura, l’equità sociale. Conquistare democrazia, qualità della vita e partecipazione per tutti. Fare dell’Europa unita la casa comune della libertà e della giustizia (..)La vecchia ricetta dell’unificazione europea attraverso la crescita e l’integrazione economica mostra la corda: mercificazione e degrado dell’ambiente, disoccupazione massiccia, competizione selvaggia. Occorre re-inventare l’Europa all’altezza della sua nuova primavera. Non per gareggiare con l’America o il Giappone, ma per diventare ospitale verso tutti i suoi abitanti ed amica a tutto il resto del pianeta.”[9]

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[1] U. Allegretti, La Costituzione europea nel nuovo ordine internazionale, in La transizione italiana, Roma 1997, pag. 78
[2] U. Allegretti, op. cit., pag. 79
[3] G. Guarino (1992) Pubblico e privato nell’economia. La Sovranità fra Costituzione ed istituzioni comunitarie in “Quaderni costituzionali”, pag. 21 e ss.
[4] Tommaso Padova Schioppa, Il Governo dell’economia, Il Mulino, 1997.
[5] U. Allegretti, op. cit. pag. 84
[6] Sulla sentenza della Corte costituzionale tedesca, vedi G. U. Rescigno, Il tribunale costituzionale federale tedesco e i nodi costituzionali del processo di unificazione europea, in Giurisprudenza costituzionale 1994, 3115 e ss.
[7] Vedi Giuseppe Bronzini, Europa: una cittadinanza senza costituzione, relazione al Convegno dell’Associazione europea dei Giuristi democratici, Firenze, 1996
[8] Vedi G. Bronzini, op. cit.
[9] Alex Langer, dal manifesto programmatico della campagna elettorale europea del giugno 1994.

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