Afganistan – Non è ammissibile una guerra di legittima difesa

La nuova guerra, è impossibile negarlo, nasce da un atto di terrorismo che, per la prima volta nella storia moderna ha assunto una dimensione catastrofica paragonabile soltanto ad un massiccio attacco bellico. L’attacco contro il Pentagono e le Torri Gemelle di New York, infatti, ha provocato, in poche ore, una quantità di vittime equivalente a quella provocato, in Jugoslavia, dai 78 giorni di bombardamenti della NATO durante la guerra del 1999.

Secondo le nostre categorie tradizionali di pensiero, non v’è dubbio che l’attacco alla torri non è un atto di guerra bensì un atto di terrorismo, poiché la guerra è una istituzione del diritto internazionale che nasce dall’esercizio di una facoltà strettamente inerente al potere sovrano degli Stati. Soltanto gli Stati possono far ricorso alla guerra, esercitando lo ius ad bellum, che peraltro la Carta della Nazioni Unite ha reso illegittimo. Laddove atti di violenza di tipo bellico vengano esercitati da altri soggetti, per quanto distruttivi possano essere, non possono determinare l’instaurazione di uno status di belligeranza, cioè di quella particolare situazione che determina il trapasso da uno stato pacifico ad uno stato bellico delle relazioni internazionali, rendendo lecito ai belligeranti di compiere azioni (uso della forza, interdizioni degli spazi aerei, terrestri e navali, etc.) che altrimenti dovrebbero considerarsi illecite.

Tuttavia la frontiera fra azioni di terrorismo ed azioni di guerra, non può essere tracciata in modo inequivocabile, né si tratta di una frontiera invalicabile, potendo il terrorismo travalicare in guerra e la guerra estrinsecarsi attraverso atti di terrorismo.

La vita della comunità internazionale presenta svariati episodi in cui alcuni Stati, oggetto di attacchi terroristici (o meglio di attacchi armati compiuti da entità non statali), hanno invocato il diritto naturale alla autotutela individuale o collettiva (la legittima difesa), garantito dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, per compiere azioni belliche contro Stati terzi, finalizzate a (ovvero con il preteso di) reprimere, punire o sradicare il terrorismo. Ciò ha fatto, in particolare, Israele, a giustificazione dell’invasione del Libano, iniziata nel 1982, ed il Sud Africa, a giustificazione dei numerosi raids compiuti in Angola ed in Lesotho. Le giustificazioni addotte da Israele e Sud Africa non avevano trovato, però, un vasto consenso nella Comunità internazionale. Dopo l’attacco alle Torri, la situazione cambia, in quanto si è verificato un attacco (terroristico) che ha assunto una dimensione incommensurabile.

Per questo i membri del Consiglio di Sicurezza, all’unanimità, con la Risoluzione n. 1368 del 12 settembre scorso, hanno dichiarato che gli atti di terrorismo costituiscono una minaccia alla pace ed alla sicurezza internazionale ed hanno riconosciuto (evidentemente agli Stati che ne sono vittime) “il diritto alla autotutela, individuale o collettiva, in accordo con la Carta.”

Sia pure indirettamente il Consiglio di Sicurezza ha equiparato l’atto di terrorismo dell’11 settembre ad un attacco armato (contro il quale soltanto è lecito invocare l’autotutela prevista dall’art. 51 della Carta).

A questo punto aggrapparsi alla distinzione astratta fra atti di terrorismo e atti di guerra e negare che l’evento dell’11 settembre abbia il carattere di un aggressione, è una linea di difesa piuttosto debole per quanti non ritengono giustificato il ricorso alla guerra. Né si deve dare eccessivo valore al fatto che la Nato ha riconosciuto che si è verificato un attacco armato contro uno dei suoi membri (applicando l’art. 5 dello Statuto), poiché da tale riconoscimento non deriva automaticamente né la necessità, né l’opportunità di promuovere azioni armate. Partiamo invece dal riconoscimento che l’11 settembre effettivamente si è verificato qualcosa di assimilabile ad un attacco armato per verificare quali ne siano le conseguenze.

Orbene, due sono le conseguenze immediate e dirette: la prima è che scatta il diritto di autotutela dell’aggredito, la seconda è che scatta il dovere di intervento del Consiglio di Sicurezza, che deve prendere delle misure adeguate per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale.

Nel sistema di sicurezza introdotto dalla Carta delle Nazioni Unite, il diritto di autotutela però non comprende il ricorso alla guerra, intesa nella sua accezione propria. E’ stato osservato, infatti, in dottrina che: “la Carta di San Francisco, se prevede che l’aggressore possa essere messo in disparte (art. 5) o addirittura espulso (art. 6), non consente nei suoi confronti l’uso indiscriminato della forza, questa, infatti, presupporrebbe la sospensione dell’efficacia della norma di cui all’art. 2 (che interdice il ricorso alla forza nelle relazioni internazionali), mentre tale sospensione non è né esplicitamente, né implicitamente disposta. Il perdurante divieto dell’uso indiscriminato della forza non preclude all’aggredito, com’è chiaro, la possibilità di difendersi efficacemente contro l’aggressore: ma la violenza così spiegata deve essere preordinata ai fini della difesa, quindi esercitarsi in limiti tali da escludere il ricorso alla guerra…Si dovrà trattare, in altri termini di una legittima difesa in senso stretto, non già di una guerra caratterizzata dalla circostanza che chi la intraprende si trova in situazione di legittima difesa” (A. C. Cialdino, Voce Guerra in Enciclopedia del diritto). L’art. 51, invocato a sproposito per giustificare la guerra, in effetti, consente soltanto la resistenza ad una aggressione armata in atto, come esercizio di un diritto naturale ed insopprimibile. Tale diritto di resistenza militare, peraltro, è stato già esercitato dagli Stati Uniti che hanno respinto l’attacco del terzo aereo dirottato, abbattendolo. Inoltre il diritto all’autotutela può essere esercitato dall’aggredito entro stretti confini temporali e funzionali, vale a dire finchè l’attacco è in corso e finchè il Consiglio di Sicurezza dell’ONU non abbia esercitato le proprie competenze, adottando delle misure adeguate per ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. In questo caso, a differenza che in altri episodi, non si può invocare la tanto lamentata paralisi del Consiglio di Sicurezza per allargare le maglie dell’autotutela. Infatti il Consiglio di Sicurezza non è stato paralizzato da alcun veto. Tutti i membri, sia quelli permanenti, sia gli altri, hanno convenuto all’unanimità di approvare delle serie misure contro la minaccia del terrorismo, al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Infatti, il giorno dopo l’evento il Consiglio, con la risoluzione n. 1368, ha statuito l’obbligo di tutti gli Stati di perseguire con la massima urgenza i responsabili di atti di terrorismo e ha dichiarato che gli Stati che danno rifugio o protezione ai terroristi saranno considerati responsabili di tali comportamenti. In seguito, con la risoluzione n. 1373, il Consiglio di Sicurezza ha adottato una serie di stringenti misure volte a prevenire e a stroncare il terrorismo, prevedendo – fra l’altro – il congelamento dei fondi e di ogni risorsa economica che possa essere usata dai terroristi e l’obbligo di tutti gli Stati di cooperare e scambiarsi le informazioni necessarie ed utili per la repressione del terrorismo. Inoltre il Consiglio ha istituito una speciale commissione alla quale tutti gli Stati, entro il termine di 90 giorni, devono riferire le misure adottate per implementare gli obblighi derivanti dalla risoluzione medesima. Poiché il Consiglio di Sicurezza ha deliberato le misure necessarie e opportune, obbligando l’intera comunità internazionale ad una azione concreta ed efficace contro il terrorismo, è del tutto evidente che non esiste alcuno spazio per l’ulteriore esercizio del diritto di autotutela, ricorrendo alla violenza delle armi. Il fatto poi che i singoli membri del Consiglio di Sicurezza e persino lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite, si siano dimostrati indulgenti con l’azione militare intrapresa dagli Stati Uniti contro l’Afganistan, non cambia questa realtà poiché nessuna interpretazione, per quanto autorevole, può modificare la Carta. “Il sistema di sicurezza delle Nazioni Unite è un tessuto compatto che non presenta smagliature attraverso cui possa insinuarsi la guerra.” (A.C. Cialdino, cit.) In realtà da quando la Carta delle Nazioni Unite è stata approvata, gli Stati hanno costantemente cercato di allargare le maglie di questo sistema per riappropriarsi di quei poteri che la Carta aveva eliso al fine di mantenere la sua promessa di salvare le future generazioni dal flagello della guerra. Così il diritto di autotutela (collettiva) è stato invocato dagli Stati Uniti per giustificare il loro intervento nella guerra del Vietnam e dalla Unione sovietica per giustificare l’invasione della Cecoslovacchia e quella dell’Afganistan. Per questo è importante la mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale, e iniziative come la marcia Perugia Assisi sono particolarmente rilevanti. E’ necessario che l’opinione pubblica internazionale continui a considerare ingiustificato il ricorso alla guerra, anche se fondata sul pretesto della legittima difesa, per impedire che si consolidi una prassi che legittimerebbe di nuovo il ricorso alla guerra come istanza suprema di giustizia nei rapporti fra gli Stati, annullando l’unica vera grande conquista di civiltà che il 900 ha consegnato alle generazioni future.

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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