Per la sinistra è il tempo della responsabilità

L’emanazione, il 5 luglio, del decreto legge di rifinanziamento di tutte le missioni militari italiane, ivi comprese quelle in Iraq e quelle in Afghanistan, ed il prossimo dibattito parlamentare per l’approvazione della legge di conversione, rende stringenti i tempi del dibattito e della decisione politica.

L’appello lanciato da personalità da sempre impegnate sul fronte della pace, della solidarietà e della giustizia internazionale, come Luigi Ciotti, Tonio Dell’Olio, Gino Strada, Alex Zanotelli, perché ci sia una svolta in politica estera con il ritiro delle truppe italiane impegnate nelle missioni in Iraq ed in Afghanistan, sta provocando un vivace dibattito ed ha fatto emergere i nodi irrisolti della politica estera dell’Unione, restia ad allontanarsi dal solco della tradizionale subalternità filoatlantica.

In realtà, sul piano delle scelte strategiche e degli orientamenti in materia politico-militare la distinzione fra il polo del centro-sinistra è quello del centro-destra è molto più sfumata di quanto non appaia, in quanto entrambi gli schieramenti condividono lo stesso orientamento “filoatlantico”. Le differenze riguardano soltanto il grado di subalternità all’alleato americano, che nel corso del governo Berlusconi ha raggiunto livelli inusitati.

Per questo il compito delle forze politiche della sinistra critica presenti nell’Unione è molto difficile: esse non possono mettere in discussione i cardini della politica estera e militare italiana senza provocare una rottura nell’alleanza e la ricomposizione di un nuovo fronte, fondato sul collante della “fedeltà atlantica”, che è molto più forte dei vincoli di coalizione imposti dal bipolarismo. Del resto ciò è già avvenuto nel 1998, quando all’uscita di Rifondazione (forza sgradita alla Nato) dall’area di governo, ha corrisposto l’ingresso nella maggioranza di una frazione del centro-destra, per consentire la formazione di un governo affidabile in vista della già programmata azione militare della Nato nei confronti della Jugoslavia.

I margini per l’azione politica della sinistra critica (Rifondazione, Verdi e Pdci) sono ristretti, ma non vuol dire che siano inesistenti. Molto dipenderà dall’interazione fra l’azione istituzionale dei parlamentari e la mobilitazione dell’opinione pubblica. Non si tratta di fare una politica di riduzione del danno, ma di fare politica, cioè di utilizzare il rapporto di fiducia fra alleati esistente nell’Unione per introdurre degli elementi di cambiamento, anche quando non sono possibili svolte radicali.

Per questo non mi appassiona il dibattito se occorre votare sì al rifinanziamento della partecipazione italiana alla missione Isaf in Afghanistan, per mantenere in buona salute la maggioranza, ovvero se occorre votare no per fedeltà al principio costituzionale del ripudio della guerra. Il problema è un altro. Occorre capire cosa possono fare le forze politiche seriamente impegnate per la pace per ottenere dei cambiamenti nel contesto politico dato.

Orbene, rispetto alla presenza del contingente militare italiano in Afghanistan, anche se ne è auspicabile il rientro, la questione si pone in termini diversi rispetto alla missione in Iraq, che è nata come pure missione di supporto all’occupazione militare dell’Iraq, dopo l’aggressione americana del 2003. La missione Isaf nasce da un accordo siglato a Bonn dalle varie fazioni afghane e recepito dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione n. 1386 del 20 dicembre 2001. Nella sua genesi è una missione di mantenimento della pace in una situazione disastrata da un conflitto bellico. Il problema è che da quando la Nato (nell’agosto del 2003) ha assunto il comando ed il coordinamento dell’Isaf, la missione ha subito una torsione di natura bellicista, in quanto gli Stati Uniti cercano di utilizzare le forze Nato a sostegno della loro campagna, mai conclusa, di guerra ai Talebani.

Per questo il Segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, sta facendo il giro delle capitali europee per chiedere truppe ed aerei, da impiegare in una sorta di guerra per procura. Questo è proprio quello che bisogna scongiurare. Rispetto a questa politica dobbiamo dissociarci per dovere costituzionale. Il problema del come, fa parte dell’arte della politica. Avere ottenuto che il contingente italiano in Afghanistan non sia rinforzato e che non siano mandati i mezzi aerei richiesti dalla Nato per scagliare nuove offensive militari può essere un risultato apprezzabile, però occorre ottenere garanzie – anche sul piano del rapporto fiduciario di governo – che il contingente italiano non verrà impiegato in azioni di controguerriglia, di rastrellamento o di riconquista di territori ostili.

In ogni caso, sia la missione in Afghanistan, sia quella, ancora presente in Iraq, agiscono in un teatro bellico. Per questo non può essere contestato – di per sé – il ricorso al codice penale militare di guerra, previsto dall’art. 16 del decreto legge, in continuazione di quanto già stabilito con la normativa precedente. In questo codice infatti, anche a seguito di recenti modifiche, sono contenute le norme che recepiscono le Convenzioni internazionali del diritto umanitario e vietano gli atti illeciti di guerra, come ricorrere alla tortura o aprire il fuoco contro le ambulanze.

Il problema è che nel codice penale militare di guerra sono contenute anche delle norme, come gli art. 72, 73, 74 e 75, che mettono il bavaglio all’informazione e vietano la diffusione delle notizie che non siano autorizzate dalle autorità militari, punendo con pene durissime sia i militari, sia i civili (per es. giornalisti o cooperanti italiani) che concorrono nel reato militare.

Nel momento in cui si trovano al governo nel nostro paese delle forze democratiche, non sarebbe il caso di ripristinare la libertà dell’informazione, in modo che i cittadini italiani possano essere compiutamente informati di quello che succede nei teatri dove operano le nostre truppe e giudicare, con cognizione di causa, il comportamento degli esecutivi?

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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