Il travaglio della legge bavaglio

Il travagliato percorso della legge bavaglio sulle intercettazioni è arrivato al punto di svolta finale, in quanto il testo che verrà approvato nei prossimi giorni alla Camera è destinato a diventare quello definitivo, dopo un passaggio meramente formale al Senato.

L’esperienza pratica di questa legislatura (e della precedente legislatura Berlusconi) ci insegna che non possiamo fare affidamento sui testi dei disegni di legge proposti dal Governo, perchè le cose peggiori emergono all’ultimo momento, attraverso emendamenti formalmente parlamentari ma in realtà ispirati dall’esecutivo. Lo stesso discorso vale per le modifiche introdotte nel percorso parlamentare, perchè, data l’assenza di ogni minima autonomia della maggioranza parlamentare, ogni compromesso migliorativo raggiunto in parlamento può essere revocato e posto nel nulla.

Fatta questa premessa, occorre rilevare che le contestazioni e le proteste dell’opinione pubblica hanno avuto una significativa incidenza nel percorso parlamentare della legge bavaglio. Infatti il testo proposto dalla commissione giustizia della Camera ha eliminato alcune delle più assurde aberrazioni contenute nel testo licenziato dal Senato, senza tuttavia modificare l’impianto della legge, che si caratterizza per due aspetti principali:
a) pregiudica gravemente la libertà di manifestazione del pensiero ed il diritto dei cittadini di essere informati sulle vicende di pubblico interesse;
b) pregiudica gravemente la capacità di indagine della polizia giudiziaria, attraverso una drastica riduzione della possibilità di utilizzare gli strumenti di indagine tecnologici ed i risultati acquisiti con tali investigazioni.

Normalmente, le leggi penali hanno per fine il contrasto alla criminalità; questa peculiare normativa, invece, ha per fine il contrasto all’azione di contrasto alla criminalità realizzata dagli organi inquirenti.

La legge bavaglio penalizza fortemente l’attività investigativa, sottoponendola ad una serie di trappole, limitazioni, divieti ed aggravamenti procedurali che non possono avere null’altro effetto se non quello di bloccare o impedire la ricerca della verità per tutti i reati – e sono i più gravi – commessi in forma occulta.

Basti pensare che nel testo approvato dal Senato, oltre alle intercettazioni telefoniche che risultavano fortemente ristrette nei tempi e nei modi, si colpiva un’altra forma di indagine, di grande utilità investigativa: l’acquisizione della documentazione del traffico telefonico. Infatti, sottoponendo i tabulati telefonici alle stesse restrizioni delle intercettazioni telefoniche, venivano vietate del tutto (anche nei confronti della criminalità terroristica e mafiosa) le indagini a vasto raggio che, in molte occasioni, si sono rivelate uno strumento decisivo per scoprire gli autori di reati gravissimi.

Con questa nuova disciplina, per esempio, non sarebbe mai stato possibile scoprire gli autori del delitto del prof. Massimo D’Antona, avvenuto a Roma il 20 maggio 1999, che furono individuati attraverso l’analisi del traffico telefonico in partenza dalle cabine pubbliche, incrociati con i dati delle tessere telefoniche utilizzate.

L’analisi della documentazione del traffico telefonico è stata l’arma che ha consentito alla polizia giudiziaria di Milano di individuare gli agenti di un servizio segreto straniero autori del sequestro di Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 febbraio del 2003. In quel caso, la polizia acquisì la documentazione di tutto il traffico telefonico transitato per la cella che agganciava il luogo dove era avvenuto il sequestro. Si trattava di ben 10.718 utenze telefoniche. Attraverso un meticoloso lavoro di scrematura, gli inquirenti riuscirono ad identificare i telefoni di 17 persone certamente coinvolte nel sequestro.

Questo tipo di indagini non veniva più consentito dalla legge bavaglio nel testo approvato dal Senato; come non veniva più consentito alla polizia effettuare riprese visive in luoghi pubblici o aperti al pubblico per individuare coloro che spacciano stupefacenti dinanzi alle scuole o per ricercare i latitanti; come non veniva più consentito mettere delle “cimici” nelle auto o negli uffici di mafiosi e camorristi per scoprirne i traffici illeciti.

Le modifiche approvate in Commissione alla Camera, sempre che non subiscano ulteriori variazioni in aula, hanno parzialmente rimediato alle principali assurdità anti-investigative, restituendo alla polizia giudiziaria la possibilità di effettuare videoriprese in luoghi pubblici e separando le prescrizioni sull’acquisizione dei tabulati dai presupposti per l’autorizzazione alle intercettazioni telefoniche, alle quali è stata tolta la tagliola della durata massima di 75 giorni. Sono stati allargati i limiti che rendevano quasi impossibili le intercettazioni ambientali, però è stato conservato un regime che ne restringe fortemente l’uso.

Sono rimaste, però, quelle limitazioni e quegli aggravamenti procedurali che non possono avere alcun altro effetto o significato che non sia quello di mettere i bastoni fra le ruote per fiaccare l’azione di contrasto alla criminalità dei pubblici poteri.

Basti pensare all’acquisizione dei tabulati che rimane inammissibile per quei reati per i quali non sono consentite le intercettazioni, per es. la truffa.

Basti pensare alla previsione della competenza del tribunale distrettuale (cioè di un collegio di magistrati che normalmente ha sede solo nel capoluogo di regione) per autorizzare ogni singola intercettazione. In questo modo si complica la procedura, si aggravano le spese ed i costi, rendendo ancora più inefficiente la macchina della giustizia.

E’ rimasto l’impedimento ad utilizzare le intercettazioni se, all’esito del processo, il fatto dovesse essere diversamente qualificato, con il risultato assurdo che i giudici dovranno assolvere degli imputati che, in base al materiale probatorio esaminato, risultano colpevoli.

E’ rimasto, altresì, l’impedimento ad utilizzare le intercettazioni effettuate in un altro procedimento, salvo per alcuni reati specificamente indicati.

Malgrado le modifiche apportate, quindi, è rimasto in piedi l’impianto di una disciplina che introduce la sabbia nel motore degli apparati investigativi per danneggiarne il funzionamento e mette il bavaglio non solo ai giornalisti ma persino ai blogger, rendendo impossibile la vita a siti come Wikipedia.

Evidentemente questo è quello che loro intendono per riforma della giustizia e per democrazia digitale.

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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