Caso Abu Omar – La Cassazione svergogna l’arroganza del potere

Com’è noto, il 24 febbraio 2014 la Corte di Cassazione, ha annullato le condanne inflitte al Direttore del Sismi, generale Niccolò Pollari, e ad altri suoi stretti collaboratori, imputati di concorso con gli agenti della Cia nel rapimento di Abu Omar, “perché l’azione penale non poteva essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato”.

E’ stata una decisione scontata, scritta sotto dettatura della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 24/2014, depositata nella notte del 23 febbraio, accogliendo gli ennesimi conflitti di attribuzione sollevati contro la magistratura, aveva – in pratica – ordinato all’autorità giudiziaria di non procedere contro gli agenti segreti italiani a causa dello sbarramento posto dal Governo con il ricorso strumentale al segreto di Stato.

La Corte di Cassazione doveva soltanto prendere atto e scrivere la parola fine a questa vicenda. Invece le motivazioni della sentenza che ha prosciolto Pollari e compagni, depositate il 16 maggio scorso, ci dicono che se il caso è chiuso, poiché è stato calato “il nero sipario del segreto”, nondimeno resta aperta una grande questione democratica.

La Cassazione prende atto obtorto collo della sentenza della Consulta ma non rinuncia a contestarla osservando – in tema di limiti all’uso del segreto di Stato – che “il bene della giurisdizione, di primario valore costituzionale, in quanto funzione dello Stato, poteva cedere, nell’equilibrio dei poteri, solo a quello della sopravvivenza stessa dello Stato come comunità associata: il confine tracciato era dunque del minor sacrificio dell’uno rispetto all’altro”. Quindi la sentenza mette in evidenza il carattere innovativo (stupefacente) dell’ultima pronuncia della Corte Costituzionale, “in quanto – come è saltato con evidenza agli occhi di ogni lettore – sembra abbattere alla radice la possibilità stessa di una verifica di legittimità, continenza e ragionevolezza dell’esercizio del potere di secretazione in capo alla competente autorità amministrativa, con compressione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità dell’autorità politica – il che non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo”.

In pratica la Cassazione ha lanciato un grido di dolore per l’oltraggio che è stato fatto allo Stato di diritto, consentendo all’autorità politica di usare strumentalmente il potere di opporre il segreto di Stato, persino su notizie di pubblico dominio, all’evidente scopo di assicurare l’impunità agli agenti segreti per i delitti commessi con l’autorizzazione o la connivenza del potere politico, com’è il caso della cooperazione italiana alla pratica criminale delle extraordinary renditions portata avanti segretamente dall’amministrazione Bush.

In effetti la Cassazione con la sentenza del 19 settembre 2012 aveva stabilito che l’autorità giudiziaria doveva procedere contro Pollari e compagni perché l’ambito del segreto non poteva riguardare le attività materiali dirette a commettere il rapimento di Abu Omar, dal momento che la sparizione forzata di persone – che oltretutto è un crimine di diritto internazionale – non rientrava (e mai avrebbe potuto rientrare) nelle attività istituzionali dei servizi segreti. La Consulta ha dato torto alla Cassazione, con l’argomentazione lapalissiana che se l’autorità politica mette il segreto, evidentemente le attività secretate rientrano nelle attribuzioni funzionali dei servizi segreti, altrimenti il segreto non avrebbe potuto essere apposto, ed ha imposto alla Cassazione di annullare la condanna degli agenti segreti.

In questo modo – obietta a buon diritto la Corte di Cassazione – è stata attribuita all’autorità politica il potere di decidere discrezionalmente se il controllo giurisdizionale per i delitti commessi dagli agenti dei servizi segreti debba essere esercitato o meno. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la sicurezza dello Stato ma comporta una evidente lacerazione alle regole dello Stato di diritto.
In altre parole la Cassazione, pur rispettando doverosamente la decisione della Corte Costituzionale, ha messo il dito nella piaga, svergognando l’arroganza di un potere che pretende l’impunità per i “delitti di Stato”.

Riusciranno le forze politiche democratiche a comprendere l’allarme lanciato dalla Cassazione?

Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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