Gaza: fermare la soluzione finale

 Il gruppo dirigente paranoico che guida il Governo di Israele è convinto di aver ricevuto un mandato biblico per impossessarsi della terra che va dal fiume al mare, liberandosi dei palestinesi votati allo sterminio.

Il 21 agosto è stata avviata dall’esercito israeliano una nuova offensiva militare, denominata “Carri di Gedeone 2” con l’obiettivo di occupare Gaza City, dove si troverebbero ancora circa 800.000 persone, e di procedere alla deportazione forzata di tutti gli abitanti verso il sud della Striscia. Per l’attuazione di questo piano sono stati mobilitati circa 60.000 riservisti. Mentre scriviamo i carri armati israeliani stanno avanzando nel centro di Gaza City e ci sono stati già centinaia di morti per gli intensi bombardamenti. Il 22 agosto il ministro della Difesa, Israel Katz ha meglio specificato le intenzioni di Israele, minacciando che se Hamas non libererà gli ostaggi e non si arrenderà «si apriranno le porte dell’inferno». Nella serata del 23 agosto il ministro delle Finanze Smotrich ha confermato l’obiettivo di ripulire la città di tutti i suoi abitanti ribadendo la necessità di «assediare Gaza city» e aggiungendo che chi non evacua «può morire di fame o arrendersi». Contemporaneamente all’annuncio della nuova offensiva militare su Gaza lo stesso ministro Smotrich ha annunziato una ulteriore espansione degli insediamenti dando il via libera a un piano che prevede la costruzione di 3.400 unità residenziali e strutture connesse nell’area denominata E1, un’area a nord-est di Gerusalemme. In questo modo verrebbe ulteriormente frammentato il territorio della Cisgiordania separando la zona a nord (Jenin Ramallah) dalla zona a sud (Betlemme – Hebron). Smotrich si è compiaciuto del progetto dichiarando: «Lo Stato palestinese viene cancellato, non con gli slogan, ma con i fatti. È un altro chiodo nella bara di questa pericolosa idea». Dal canto suo Netanyahu ha dichiarato, il 10 agosto, che la nuova offensiva contro Gaza City ha l’obiettivo di porre fine alla guerra «in tempi relativamente brevi».

Se si mettono insieme questi due fronti, l’inferno di Gaza e la continua appropriazione della Cisgiordania, appare evidente che il Governo teocratico israeliano sta accelerando verso l’obiettivo finale: portare a compimento la conquista della terra promessa adempiendo a una missione fondata sul diritto biblico. Nel libro di Giosuè è scritto che Dio promise agli Israeliti la terra: «dal deserto e dal Libano fino al fiume grande, il fiume Eufrate, tutto il paese degli Ittiti fino al Mar Mediterraneo» (Giosuè, 1: 4). Del resto il capitolo 7 del Deuteronomio si apre con parole durissime relative al comando di presa di possesso della terra promessa: «il signore tuo Dio avrà messo le nazioni che vi vivevano in tuo potere e tu le avrai sconfitte e votate allo sterminio. Con esse non stringerai alcuna alleanza e nei loro confronti non avrai pietà». Il gruppo dirigente paranoico che guida il Governo di Israele è convinto di aver ricevuto un mandato biblico per impossessarsi della terra che va dal fiume al mare, liberandosi dei palestinesi votati allo sterminio. Se Israele fonda la sua legittimità sul diritto divino, la sua vocazione messianica non può certo essere ostacolata dal diritto umano, tanto meno da quella branca debole del diritto pubblico che è il diritto internazionale.

Siamo al paradosso di uno Stato, nato in virtù di una deliberazione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (la 181 del 29 novembre 1947) che gli attribuiva la sovranità su una parte del territorio della Palestina mandataria, essendo l’altra parte destinata alla nascita di uno Stato palestinese, che si è completamente svincolato dai costumi e dai meccanismi che regolano le relazioni fra le Nazioni, in virtù di una fonte di legittimazione metastoricaFin dalla sua fondazione Israele ha agito, legibus solutus, violando la Carta dell’ONU, le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, le deliberazioni dell’Assemblea Generale, le Raccomandazioni e le linee guida degli organi ausiliari della Nazioni Unite. Israele ha violato tutti i Trattati relativi ai diritti umani, specialmente quelli relativi al Diritto bellico, come la IV Convenzione di Ginevra del 1949 e le norme di ius cogens ribadite dai due Protocolli aggiuntivi del 1977. Con la vicenda di Gaza, siamo arrivati al punto estremo, alla violazione impudente della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, il primo e fondamentale strumento adottato dall’ONU il 9 dicembre 1948 per la protezione del genere umano in quanto tale. Lo scopo della Convenzione, non è quello di punire il genocidio, ma di far si che fatti di genocidio non debbano verificarsi mai più.

Di fronte al ricorso del Sud Africa che ha contestato a Israele la violazione della Convenzione dinanzi alla Corte di Giustizia dell’ONU, la Corte con ordinanza del 26 gennaio 2024, ha ritenuto plausibile il rischio di genocidio e per prevenirlo ha imposto a Israele di «adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti che rientrano nel campo di applicazione dell’articolo II di tale Convenzione, in particolare: a) l’uccisione di membri del gruppo; b) causare gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo; c) infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale». Inutile dire che Israele non si è conformato alle misure richieste, che sono state inutilmente ribadite dalla Corte con ordinanze del 28 marzo e del 5 aprile. Con l’ordinanza del 24 maggio 2024, ritenendo che la situazione derivante dall’offensiva militare israeliana a Rafah comportasse un ulteriore rischio di pregiudizio irreparabile ai diritti dei palestinesi la Corte dell’Aia ha adottato ulteriori misure provvisorie. Nello specifico, ha stabilito che: «lo Stato di Israele, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, e in considerazione del peggioramento delle condizioni di vita dei civili nel governatorato di Rafah, dovrà: […] fermare immediatamente la sua offensiva militare e qualsiasi altra azione nel governatorato di Rafah che possa infliggere al gruppo palestinese di Gaza condizioni di vita che potrebbero portare alla sua distruzione fisica, totale o parziale; […] mantenere aperto il valico di Rafah per la fornitura senza ostacoli di servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari; […] adottare misure efficaci per garantire l’accesso senza ostacoli alla Striscia di Gaza di qualsiasi commissione d’inchiesta, missione d’indagine o altro organo investigativo incaricato dagli organi competenti delle Nazioni Unite di indagare sulle accuse di genocidio […]». Poiché le misure atte a impedire il genocidio sono state apertamente violate, da più di un anno sono in corso azioni genocidiarie da parte di Israele, che si sono progressivamente aggravate fino all’ultima svolta di questi giorni che apre un nuovo girone infernale.

L’aspetto più atroce sono le azioni volte a infliggere condizioni di vita alla popolazione di Gaza che potrebbero portare alla sua distruzione fisica totale o parziale, prima di tutto la fame, causata dal prolungato blocco dei rifornimenti di cibo ed altri beni essenziali per la vita. Adesso la carestia a Gaza è stata anche formalmente certificata dall’ONU. Il rapporto dell’IPC, l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), un organismo sostenuto dalle Nazioni Unite responsabile del monitoraggio della sicurezza alimentare, afferma che la carestia a Gaza è stata causata dai combattimenti e dal blocco degli aiuti, e amplificata dagli sfollamenti diffusi e dal collasso della produzione alimentare, portando la fame a livelli pericolosi per la vita in tutto il territorio dopo 22 mesi di guerra. Nel rapporto si afferma che i livelli di malnutrizione, in particolare fra i bambini, sono aumentati drasticamente negli ultimi mesi nella prima carestia conclamata del Medio Oriente. «Si prevede che entro giugno 2025 (ma adesso siamo ad agosto) almeno 132.000 bimbi sotto i cinque anni soffriranno di malnutrizione acuta, il doppio rispetto alle stime dell’IPC di maggio. Ci sono oltre 41.000 casi di bambini ad alto rischio di morte e circa 55.500 donne incinte e in allattamento risultano malnutrite e richiedono urgentemente cibo e assistenza. «Dopo 22 mesi di conflitto incessante, oltre mezzo milione di persone nella Striscia di Gaza si trova ad affrontare condizioni catastrofiche caratterizzate da fame, miseria e morte», si legge ancora nel documento. Si prevede che questo numero, salirà a quasi 641.000 persone, quasi un terzo della popolazione, entro la fine di settembre. Al 24 agosto, secondo un comunicato del Ministero per la salute di Gaza, sono 289 i palestinesi morti per fame, fra cui 115 bambiniAlla stessa data il numero delle vittime è stato aggiornato in 62.686 morti e 157.951 feriti. In questo numero non sono comprese le 20 vittime, fra cui 5 giornalisti, del bombardamento dell’Ospedale di Khan Younis avvenuto il giorno dopo. Anche la ricerca disperata del cibo è diventata una trappola mortale. Da quando alla fine di maggio è stato istituita la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), le vittime tra chi cercava assistenza sono salite a 2.095, con più di 15.431 feriti.

Aprendo questo ulteriore girone infernale, con l’assedio e la distruzione fisica di Gaza City, Israele dimostra di non avere alcuna intenzione di fermarsi e di puntare alla “soluzione finale” del problema palestinese. Ma, in realtà, la soluzione finale non esiste. Anche se Israele ripulisse da ogni presenza palestinese la metà nord della Striscia di Gaza, rinchiudendo i superstiti nel Sud trasformato in un enorme lager, questa popolazione non potrebbe essere “smaltita”, né con la fame, né con le bombe, né con la deportazione in altri paesi. Una fetta della popolazione sopravviverebbe. Lungi da diventare una riviera per ricchi, la Striscia di Gaza resterebbe come una ferita purulenta, impossibile da curare. Ugualmente in Cisgiordania, l’espansione degli insediamenti non potrebbe far sparire la popolazione palestinese. I chiodi nella bara dello Stato palestinese, sono, in realtà dei chiodi che Israele ha inflitto a sé stesso. La soluzione due popoli per due Stati, con uno Stato palestinese ridotto sul 22% del territorio della Palestrina mandataria, rappresentava una grande opportunità per Israele per assicurarsi la convivenza pacifica con la popolazione palestinese, senza pagare pegno per la Nakba. La cancellazione della possibilità di uno Stato palestinese con la politica dei fatti compiuti, portata avanti da 58 anni, condanna Israele a diventare uno Stato di apartheid come lo fu il Sud Africa.

Di fronte all’impossibilità di realizzare qualunque soluzione della questione palestinese, cresce la violenza e si aggravano le azioni genocidiarie, come dimostrano i fatti di questi ultimi giorni. Non c’è più tempo, il genocidio in corso chiama in causa la coscienza morale dell’umanità. Di fronte a un genocidio che va avanti con un continuo crescendo, non si può rimanere indifferenti: o si agisce per fermare Israele o si è complici. La Palestina non ha bisogno di parole ipocrite di commiserazione da parte della leadership dei paesi occidentali, sostenitori sul piano economico, politico e militare delle azioni del Governo israeliano. In particolare deve essere denunciata la complicità del Governo italiano, che continua il sostegno militare a Israele rifiutando persino di ritirarsi dal Memorandum di collaborazione militare stipulato il 16 giugno 2003, ratificato con la legge n. 94/2005, e si oppone in sede europea a ogni sanzione a Israele.

L’indignazione dei cittadini italiani per le atrocità commesse in Palestina si deve trasferire nei confronti dei responsabili politici, complici del genocidio nella misura in cui non fanno niente di quanto in loro potere per arrestare la macchina di morte azionata dal Governo israeliano Grande è la frustrazione ma anche la volontà di reagire della società civile. Le iniziative si moltiplicano. È importante l’iniziativa della Coalizione internazionale Freedom Flotilla, che farà partire il 31 agosto una flotta di imbarcazioni, cariche di aiuti umanitari, con l’obiettivo di rompere l’embargo disumano ed illegale imposto da Israele alla popolazione della Striscia. Sono in corso delle iniziative per rimettere in gioco l’ONU e consentire il superamento del prevedibile veto USA nel Consiglio di sicurezza, con il ricorso alla procedura Uniting for Peace, attivabile quando il Consiglio di Sicurezza non riesce a mantenere la pace e la sicurezza internazionale perché paralizzato dal diritto di veto di uno dei suoi membri permanenti. In questi casi è possibile la convocazione di una speciale sessione di emergenza dell’Assemblea generale che può raccomandare delle misure collettive, anche di carattere coercitivo. A questo proposito, il 21 agosto, è stata inviata una lettera collettiva (prima firmataria Luisa Morgantini) al ministro degli Esteri, sollecitandolo a richiedere delle misure d’emergenza al Consiglio di sicurezza, facendo ricorso – in caso di blocco – alla procedura Uniting for Peace.

Ma la strada principale per fermare Israele rimane sempre quella di rompere la tradizione di impunità che alimenta il senso di onnipotenza dei governanti israeliani. Occorre che soprattutto i paesi tradizionalmente alleati e sostenitori di Israele pongano fine a ogni forma di sostegno, politico, militare, finanziario, attraverso sanzioni adeguate. Le recenti dimissioni del ministro degli Esteri olandese Caspar Veldkamp, a fronte del rifiuto del suo Governo di adottare delle sanzioni contro Israele, hanno scoperchiato il verminaio delle complicità istituzionali ed aprono una contraddizione all’interno degli apparati di governo, mettendo a nudo l’insostenibile ipocrisia di una politica che lascia correre il genocidio, voltandosi dall’altra parte.

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Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

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