La cosiddetta riforma della giustizia o separazione delle carriere(più esattamente “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”) è legge, pur se ancora “in sospeso”, in attesa dell’esito del referendum oppositivo che si terra a marzo-aprile del prossimo anno.
Con la scontata approvazione, il 30 ottobre, da parte del Senato si è, infatti, concluso l’ier parlamentare del disegno di legge costituzionale proposto dal Governo Meloni. La riforma è stata accolta con grandi ovazioni dalla destra e Forza Italia ha intestato la riforma a Berlusconi, portando in processione per le strade di Roma l’effigie del defunto cavaliere come se fosse la Madonna Pellegrina. Il percorso di questa controriforma della Costituzione, approvata a tambur battente, costituisce di per sé una prova tecnica di Premierato. Non era mai accaduto, infatti, nella storia parlamentare che una modifica della Costituzione di tale entità venisse approvata nel testo proposto dal Governo senza che venisse consentito al Parlamento di approvare un solo emendamento. Un testo governativo indiscutibile per un Parlamento espropriato della sua funzione e ridotto a claque del Governo.
Per prepararci al referendum costituzionale – che, come detto, si terrà nella prossima primavera – , la prima operazione da compiere è fare pulizia delle parole false ed ingannevoli.
Innanzitutto bisogna spiegare che quella approvata non è una riforma della giustizia. Essa, infatti, non ha nulla a che vedere con le questioni attinenti al funzionamento della giustizia né, tanto meno, è volta a migliorare la qualità del servizio giustizia a tutela dei diritti dei cittadini. La denominazione separazione delle carriere è una vera e propria truffa delle etichette. La separazione delle carriere è stata già portata a termine, a Costituzione invariata, con la riforma Cartabia (art. 12 della legge 71/2022) e, ormai, non c’è più nulla da separare. L’oggetto della riforma è la riscrittura del titolo IV della Costituzione all’unico scopo di restringere o abbattere le garanzie di indipendenza dell’esercizio della giurisdizione.
La parte della Costituzione oggi riformata definisce in modo più organico e completo di altre costituzioni moderne il principio della separazione dei poteri, creando uno zoccolo duro di pluralismo istituzionale che non può essere superato, a Costituzione vigente. Il particolare il Titolo IV della Carta fondamentale ha operato una netta cesura rispetto al vecchio ordinamento monarchico-liberale nel quale, alle scarse garanzie di indipendenza dei giudici, si affiancava la soggezione dei pubblici ministeri al potere politico (situazione che aveva determinato l’incapacità della magistratura dell’epoca di effettuare una efficace azione di contrasto alle violenze che portarono all’avvento della dittatura fascista). Le norme costituzionali che garantiscono l’indipendenza del giudiziario (Titolo IV) e quelle che assoggettano l’esercizio dei poteri al controllo di costituzionalità (Titolo VI), incarnano, dunque, le garanzie antitotalitarie della Carta. Nel disegno costituzionale l’indipendenza della magistratura non è concepita come un privilegio corporativo dei magistrati bensì costituisce una garanzia per la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini e dei beni pubblici repubblicani a fronte dei possibili abusi dei poteri pubblici o privati. In una situazione politica in cui i poteri pubblici tendono a debordare e a varcare i limiti della legalità, la magistratura indipendente svolge necessariamente una funzione antimaggioritaria, e ciò non dipende dall’orientamento politico dei singoli giudici. Proprio questa funzione di garanzia dei diritti e della legalità è quello che la riforma costituzionale mira ad eliminare. Non è una deformazione malevola ma la lettura, una sorta di interpretazione autentica, della presidente del Consiglio che, contestualmente alla sua approvazione, ha dichiarato: «La mancata registrazione da parte della Corte dei conti della delibera riguardante il Ponte sullo Stretto è l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento. La riforma costituzionale della giustizia e la riforma della Corte dei Conti […] rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione di Governo».
Lo strumento principale attraverso il quale la Costituzione assicura la garanzia dell’indipendenza della magistratura è il ruolo e la funzione del Consiglio Superiore della Magistratura. Non a caso tale organo è stato oggetto, ormai da decenni, di violenti attacchi politici. Clamoroso fu il conflitto fra il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il Consiglio Superiore. Cossiga arrivò al punto di minacciare l’intervento dei carabinieri per impedire che il plenum del Consiglio trattasse argomenti da lui vietati. Ma il progetto di subordinare l’esercizio della giurisdizione all’indirizzo politico era stato già esplicitato nel “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli scoperto nel 1981, mirante a sovvertire le istituzioni democratiche attraverso un’azione riservata e per vie interne. In tale progetto si prospettavano, per eliminare lo scandalo del “potere diviso” voluto dalla Costituzione, interventi articolati: la separazione delle carriere fra magistrati giudicanti e magistrati inquirenti, la collocazione di questi ultimi nella sfera del ministro della giustizia e la neutralizzazione dell’autogoverno dei magistrati, mediante la sottoposizione del Consiglio superiore al controllo del Parlamento. Il progetto di Licio Gelli non è mai tramontato. Come un fiume carsico è affiorato più volta in diversi contesti politici e ora ha trovato attuazione con la riforma costituzionale.
L’insofferenza del potere politico verso il controllo di legalità
Al di là delle parole di circostanza, la ragione della riforma dell’assetto costituzionale della magistratura è l’insofferenza del potere politico al controllo di legalità (come evidenziato dalla valanga di insulti e minacce rivolti a giudici e pubblici ministeri, e ora anche alla magistratura contabile, ogni volta che vengono adottati provvedimenti sgraditi). Un organo di governo autonomo che tuteli i magistrati da interferenze esterne è, dunque, la bestia neradell’establishment politicoe per questo la riforma lo depotenzia dividendolo in tre distinti organismi: un Consiglio per i magistrati del pubblico ministero, uno per i magistrati giudicanti ed uno, denominato Alta Corte disciplinare, competente per i provvedimenti disciplinari. E non basta la divisione: i tre nuovi organismi sono ulteriormente sviliti con l’introduzione del criterio del sorteggio secco dei componenti togati, che cancella la rappresentanza del corpo dei magistrati. In questo modo si rende opaca l’attività di governo della magistratura e si creano le condizioni per un impoverimento culturale e ideale del corpo dei magistrati, destinati a diventare sempre più “funzionari” ministeriali e sempre meno garanti dei diritti inviolabili dei cittadini.
Sbarazzarsi dei poteri di controllo è il passaggio obbligato per la trasformazione di un ordinamento democratico in una democrazia illiberale sul modello ungherese o turco. Di qui l’importanza della mobilitazione per impedire la svolta autoritaria in itinere cancellando la riforma con il referendum costituzionale.
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