Oggi, 11 luglio, ricorre l’anniversario dell’episodio più atroce della guerra che sconvolse la Bosnia-Erzegovina dal 1992 al 1995. Sono passati 30 anni dalla caduta di Sebrenica, dalla deportazione dei suoi abitanti e dagli orribili massacri che ne seguirono nei giorni immediatamente successivi. Nella mattinata dell’11 luglio 1995 le truppe Serbo bosniache, comandate dal generale Ratco Mladic, penetrarono nella città di Sebrenica, enclave mussulmana in una zona serba, che il 16 aprile del 1993 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva dichiarato safe area. La popolazione di Sebrenica fuggi dalla città, 20-25.000 persone si radunarono in Potocari nei pressi della base ONU in cerca di protezione, che il contingente olandese dell’UNPROFOR non fu in grado di garantire. Le truppe serbe dei Drina Corps al comando del generale Radislav Krstic separarono donne, bambini e anziani dagli uomini in età militare. Il primo gruppo fu caricato su bus ed espulso dall’enclave, il secondo gruppo fu concentrato in un posto denominato “la Casa bianca” e da lì trasferito nei luoghi dove sono state eseguite le esecuzioni di massa. Nello stesso contesto, una colonna di soldati e civili in fuga attraverso i boschi fu attaccata e costretta ad arrendersi. Secondo quanto accertato dal Tribunale Internazionale per la ex Jugoslavia nei giorni successivi alla caduta di Sebrenica, dal 13 al 16 luglio, furono uccisi da 7.000 a 8.000 uomini, i loro cadaveri fatti sparire seppellendoli in fosse comuni.
Di fronte a questi avvenimenti si levò un grido d’orrore. La Cancellerie, Stati Uniti in testa, non fecero finta di non vedere, furono diffuse le foto aeree delle fosse comuni, la disperazione dei sopravvissuti e i loro racconti d’orrore causarono un fremito d’indignazione che percorse l’opinione pubblica internazionale. L’enclave mussulmano-bosniaca di Sebrenica fu cancellata. La città subì una radicale pulizia etnica, attraverso la deportazione di una parte della popolazione e lo sterminio dell’altra.
La storia del conflitto balcanico ci insegna che il sogno dei partiti religiosi di Israele di liberarsi della popolazione “aliena” che occupa abusivamente l’enclave di Gaza nel territorio che la Bibbia ha assegnato al popolo ebraico, era stato già realizzato, in piccolo, dai Serbo-bosniaci nel 1995 con la “liberazione” dell’enclave di Sebrenica e l’espulsione/annientamento della sua popolazione. In realtà il sogno di appropriarsi di un territorio “liberandolo” dei suoi abitanti sgraditi, per Karadzic e compagni si trasformò precocemente in un incubo. I loro delitti non sono rimasti impuniti. Sia Karadzic (nel 2016) che Mladic (nel 2017) sono stati condannati all’ergastolo dal Tribunale Internazionale per la ex Jugoslavia, assieme ad alcuni generali e altri ufficiali. Il 2 agosto del 2001 nel processo a carico del generale Radislav Kristc, è stata emessa la prima condanna per genocidio in Europa dopo la Shoah. Il Tribunale internazionale ha qualificato come “genocidio” i fatti di Sebrenica. Ha rilevato che del delitto di genocidio ricorrevano sia l’elemento oggettivo della condotta (actus reus), che l’elemento soggettivo, il dolo specifico (mens rea). Quanto al primo elemento il Tribunale ha accertato, senza ombra di dubbio che gli uomini musulmani bosniaci residenti nell’enclave sono stati assassinati in esecuzioni di massa o individualmente. È stato inoltre accertato che i pochi sopravvissuti alle esecuzioni di massa hanno subito gravi danni fisici o mentali. Quanto al secondo elemento Il Tribunale ha osservato che la popolazione mussulmana di Sebrenica costituiva una frazione di un gruppo etnico-religioso (i mussulmani di Bosnia), e che i massacri erano stati determinati dalla volontà di distruggere in parte questo gruppo etnico.
È curioso che gli alfieri della “Sinistra per Israele” e i trombettieri della destra italiana non abbiano criticato il ricorso alla definizione di genocidio per qualificare i fatti di Sebrenica, né che abbiano ritenuto “una bestemmia” rievocare il genocidio dopo la shoah. Eppure c’è un sottile filo nero che collega i fatti di Sebrenica alle operazioni compiute dalla forze militari israeliane a Gaza, dal momento che l’obiettivo rivendicato apertamente da voci autorevoli presenti nel Governo israeliano è quello di liberarsi della popolazione palestinese e recuperare il territorio della Striscia per trasformarlo in una fantastica riviera. Tuttavia i metodi sono differenti, i serbo-bosniaci in una sola settimana, hanno liberato l’enclave di tutta la popolazione “aliena” d hanno sterminato 8.000 “terroristi”, cioè giovani uomini in età militare. Gli israeliani sono molto più pazienti, non uccidono più di cento-duecento persone al giorno (ci hanno messo 20 mesi per eliminarne 57.000) e lo fanno in modo egualitario, senza fare discriminazioni fra uomini e donne, fra bambini e anziani, fra miliziani e civili, fra medici e infermieri. Gli israeliani non hanno deportato la popolazione fuori dal territorio conteso con i bus, come hanno fatto i serbi, ma attendono pazientemente il trasferimento “volontario” della popolazione e per incoraggiarlo si limitano a radere al suolo tutte le case, a sfollare tutti gli abitanti dalle zone dichiarate pericolose a causa dei combattimenti concentrandoli nelle safe areas, dove il rischio di morire bruciati vivi nelle tende è frutto solo del caso. La pazienza di Israele è testimoniata anche dal blocco dei rifornimenti di cibo, di acqua, di medicinali e di carburante. Mentre le bombe ti inceneriscono in un attimo, ma colpiscono solo alcuni lasciando sopravvivere tutti gli altri, la fame raggiunge tutti i due milioni di abitanti della Striscia, entra in ogni famiglia, indebolisce i più fragili e apre la strada a tante malattie collaterali che aiutano a ridurre la popolazione, per cause naturali, senza violenza. Un po’ di violenza, però e necessaria e viene esercitata per ragioni di ordine pubblico quando viene distribuito il cibo dai “volontari della Gaza Humanitarian Foundation per evitare spintoni o tafferugli. Si sa che quando si vuole distribuire del cibo ad una folla di affamati, la gente si accalca, si accapiglia per contendersi un pezzo di pane, diventa tumultuosa. Primo Levi in Sommersi e Salvati racconta una scena avvenuta durante il trasporto dei prigionieri su un carro bestiame, dopo l’evacuazione di Auschwitz (gennaio 1945). Il convoglio viaggiava verso nord, sotto i bombardamenti e il gelo: «Alcuni contadini, per compassione o per scherno, gettarono nei vagoni del pane. Ne scaturì una rissa: una lotta animalesca tra uomini scheletrici e disperati per un pezzo di pane. Ci si colpiva, ci si strappava il cibo di bocca, ci si uccideva quasi». Non sembra dissimile la condizione degli uomini e delle donne palestinesi rinchiusi nel ghetto di Gaza e costretti a vedere i loro figli spegnersi giorno dopo giorno devastati dalla fame. Organizzare un’ora di distribuzione del cibo di fronte a folle sterminate di affamati non dev’essere facile. Per fortuna c’è un metodo infallibile per riportare l’ordine: il tiro all’affamato. Il risultato di questo gioco, denominato operation salted fish è stato di 549 affamati uccisi e 4.066 feriti in un solo mese in occasione della distribuzione del cibo. Quando il tiro all’affamato diventerà una disciplina olimpica, la squadra di Israele trionferà su chiunque altro.
(Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata sul Fstto Quotidiano del 10 luglio con il titolo: “Genocidio” a Sebrenica, perchè a Gaza non lo è?)
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Analisi “storica” eccellrnte