Il preannunciato referendum sulla legge di riforma costituzionale dell’assetto della magistratura chiamerà il corpo elettorale a pronunciarsi su questioni tecniche relative all’ordinamento giurisdizionale che per la gran parte dei cittadini risultano incomprensibili. Cosa interessa al cittadino comune della separazione delle carriere, della divisione in tre del Consiglio superiore della magistratura, della scelta per sorteggio dei membri togati di tali organismi? Per poter effettuare una scelta dovremo necessariamente affidarci all’interpretazione autentica delle ragioni della riforma come ci vengono prospettate dai suoi artefici.
Ha cominciato la Meloni che, di fronte alla bocciatura da parte della Corte dei Conti della delibera Cipess sul Ponte dello Stretto, ha reagito stizzita qualificando il provvedimento come “l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del governo e del Parlamento” e ha precisato che la riforma costituzionale della giustizia rappresenta “la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza”. Questo concetto che la riforma serve a bloccare l’invasione di campo della magistratura nelle scelte del potere politico è stato maggiormente specificato da Mantovano: “Oggi c’è il blocco delle espulsioni grazie a decisioni giudiziarie, il blocco della sicurezza, della politica industriale che voglia raggiungere certi obiettivi, si pensi all’Ilva grazie a decisioni giudiziarie. C’è un’invasione di campo che deve essere ricondotta”.
Al di là di tutti i tecnicismi, il senso della riforma è quello di impedire che la magistratura possa fare un’invasione di campo nelle scelte del governo, anche laddove quelle scelte riguardano settori suscettibili di impattare diritti fondamentali della persona come la salute, la libertà del dissenso, il diritto di essere salvati per i naufraghi. Secondo questa concezione la magistratura deve tutelare i diritti ma non può spingere questa tutela fino al punto di interferire con le scelte della politica. A questo punto bisogna chiedersi qual è il modello ideale di giustizia a cui aspirano i riformatori nostrani?
C’è un paese che nella sua Costituzione assicura che “la dignità è un diritto di ogni persona che non può essere violato” (art. 51), bandisce la tortura (art. 52). In cui “la libertà personale è un diritto naturale che è tutelato e non può essere violato. Salvo i casi di flagranza di reato, i cittadini non possono essere fermati, perquisiti, arrestati (…) se non in base a un mandato di arresto giudiziario (…) Tutti coloro la cui libertà è stata limitata devono essere immediatamente informati dei motivi che ne hanno determinato la limitazione, (…) e tradotti dinanzi all’autorità inquirente entro ventiquattro ore (…) Coloro che hanno subito una limitazione della libertà hanno diritto di ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria. La sentenza deve essere emessa entro una settimana da tale ricorso, altrimenti il ricorrente deve essere immediatamente rilasciato” (art. 54). La Costituzione detta anche le norme sul giusto processo: “Tutti coloro che sono arrestati, detenuti o hanno la libertà limitata devono essere trattati in modo da preservare la loro dignità. Non possono essere torturati, terrorizzati o sottoposti a coercizione. Non possono essere danneggiati fisicamente o mentalmente (…) Ogni violazione di quanto sopra costituisce un reato e il colpevole sarà punito a norma di legge” (art. 55).
Ovviamente questa Costituzione riconosce formalmente l’indipendenza della magistratura (art. 184), istituisce un Consiglio Superiore presieduto dal Capo dello Stato (art. 185); come la Costituzione italiana, prevede che i giudici siano soggetti soltanto alla legge (art. 186), ma le norme che disciplinano il potere giudiziario svuotano di contenuto l’indipendenza attribuendo al Capo dello Stato il potere di nominare i vertici degli organi giudiziari.
Questo paradiso dei diritti ha un solo neo: si tratta dell’Egitto. Com’è possibile che in un paese con una Costituzione così “garantista”, un giovane come Giulio Regeni venga arrestato segretamente, torturato e ucciso e che i suoi assassini vengano protetti fino al punto che sia negata all’autorità giudiziaria italiana la possibilità di citarli in giudizio? La risposta è semplice: in quel paese l’indipendenza è stata taroccata per cui non si consente alla magistratura di fare invasioni di campo o di ficcare il naso nelle scelte della politica che riguardano la sicurezza. L’esperienza egiziana dimostra che tutte le carte dei diritti, anche se fondate su Costituzione, sono carta straccia in assenza di un potere giudiziario realmente indipendente dal potere politico. L’esigenza della Meloni di addomesticare l’esercizio della giurisdizione per renderlo funzionale alle scelte politiche della maggioranza ha un solo difetto: si ispira al modello egiziano.
(articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano del 12 novembre 2025 con il titolo: La riforma dei giudici è il modello egiziano)